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Mario De Zanet·11 febbraio 2021
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Mario De Zanet·11 febbraio 2021
Una vita dentro un libro. Centinaia, migliaia di vite, dentro un libro. È la vita degli arbitri raccontata attraverso quella di Claudio Gavillucci, un uomo capace di cambiare la vita dei suoi colleghi dopo che la sua, di vita, è stata fermata, privata del sogno. Il sogno, ovviamente, è la Serie A, vissuta sino alla stagione 2017/18, la terza ed ultima vissuta nella massima serie: poi lo stop. Tu non arbitri più, gli dice l’AIA. Fine della corsa.
Perché? È una lunga, lunghissima storia, vissuta tra polemiche e processi, cominciata allo stadio Marassi, dove Gavillucci ha scelto di interrompere Sampdoria-Napoli(13/05/18) per cori di discriminazione territoriale: è stato il primo nella storia del calcio italiano, ma pochi mesi dopo l’AIA lo ha dismesso, chiudendogli le porte della Serie A. Non esiste una connessione ufficialmente riconosciuta tra la sfida di Genova e il benservito, ma è quel che lascia presagire una storia estremamente intricata, trascinata da Gavillucci ad un lungo iter processuale da cui l’arbitro non ha avuto indietro il suo sogno, ma ha reso migliori quello dei suoi eredi, cambiando i meandri dell’AIA, diventata da allora più trasparente.
Questo è un tema estremamente attuale. Domenica l’AIA sceglie il suo futuro, il suo presidente: ancora Nicchi o il nuovo, Alfredo Trentalange. Gavillucci ha un’idea estremamente chiara e lo si può capire attraverso le sue parole. Le parole di un uomo oggi diviso tra Italia e Liverpool, dove si è trasferito per lavoro, senza mai smettere di fischiare. Oltremanica, infatti, Gavillucci arbitra nella National League North/South, sesta categoria del calcio inglese.
L’uomo nero sono tante cose. L’uomo nero è un titolo che ho fortemente voluto: prima del libro, è venuto il titolo, perché sintetizzava quel che volevo trasmettere. Nell’immaginario collettivo, è la figura che si usa per comunicare ai bambini qualcosa di avverso e di pericoloso; nel calcio, è appunto l’arbitro, la figura oscura, misteriosa, che ha il potere di fischiarti il rigore che vale una sconfitta. E l’uomo nero è oggi l’ uomo di colore, spesso oggetto di insulti e cori deprecabili: il mio libro comincia proprio da qui, da quell’episodio di cui sono protagonista, con l’interruzione di Sampdoria-Napoli. E infine sì, lo sono anch’io, che mi sono posto contro l’AIA, minandone le sue granitiche certezze, oramai non al passo con i tempi.
Umanamente, un atteggiamento fisiologico di chi subisce un attacco è difendersi e chiudersi in se stesso. E l’AIA in questi anni si è chiusa in se stessa, in un ambiente ermetico che sceglie la riservatezza come unica risposta. E così crescono gli arbitri, incassando senza rispondere. Ma l’arbitro, come uomo, sente l’offesa, e avrebbe qualcosa da dire: serve scindere la figura istituzionale dell’arbitro dall’uomo e dalla sua volontà di difendere la propria posizione. L’uomo avrebbe voglia di esprimersi, anche se non tutti hanno la capacità di parlare adeguatamente: serve parlare si, ma in maniera ponderata. Questa AIA non ha ancora compreso che curare la comunicazione è vantaggioso, molto più di lasciarsi travolgere dalle polemiche.
E’ qualcosa su cui dopo un po’ ci fai l’abitudine, ma che nel 2021 in paese civile non dovrebbe essere tollerato. Nel momento in cui era in atto il processo sul mio conto, ho scelto di tornare ad arbitrare le giovanili. Avrei potuto prendere un congedo, ma ho scelto di lanciare un messaggio alla base. Volevo far capire cosa spingesse un ragazzo la domenica mattina alle 9 ad andare in un campo di periferia a ricevere insulti. Era una missione: andare dai giovani. Durante questa esperienza, spesso, ho fermato la gara per insulti nei miei confronti giunti dai genitori sugli spalti: volevo che la gente capisse che l’arbitro è come un giocatore. Per aiutare questo processo una delle iniziative che si dovrebbe adottare e che ho letto sarà nel programma di Alfredo Trentalange, è il doppio tesseramento, come avviene in Inghilterra: sino ai 18 anni, si può essere sia calciatore sia arbitro. Così ogni società avrebbe almeno un arbitro al suo interno, rendendolo parte integrante del club, non un’entità esterna, facendone comprendere le mille sfaccettature.
È un atleta, come lo sono i calciatori, il cui compito è garantire il rispetto delle regole e favorire la miglior espressione di calcio possibile. L’idea è un’unione d’intenti in cui calciatori, allenatori, club e direttori di gara remino nella stessa direzione: una sorta di sinergia che qui in Inghilterra vivo quotidianamente.
La mia prima partita qui. La squadra di casa mi contatta prima della gara: come organizzi la trasferta Claudio? Cosa vuoi mangiare nel terzo tempo? Così giro la mail al mio designatore che mi dice di rispondere, ma rimango stupito: non pensavo si potessero avere contatti prima della gara. In Italia, non è esattamente così. Oppure a fine novembre, quando mi venne chiesta la disponibilità per cambiare l’orario di una partita che avrei dovuto dirigere: in Italia, una scelta del genere riguarda l’arbitro soltanto di riflesso, ovvero a decisione presa.
È necessario sia scindere la politica dallo sport, sia distinguere professionismo dal dilettantismo. Questo sviluppo nasce dalla concezione di calcio come azienda, in cui gli arbitri siano considerati professionisti: è assurdo che, all’ interno di un campo di Serie A, vi siano tutte figure professioniste, a sola esclusione dei direttori di gara.
Ogni lavoro li richiede per raggiungere il vertice, ma esiste una differenza sostanziale: l’arbitro è estremamente precario, anche e soprattutto quando raggiunge l’apice. L’arbitro non riceve né un’adeguata remunerazione economica né l’esatta garanzia contrattuale. L’arbitro è un giudice del calcio e un ruolo così particolare necessita di maggior serenità. Se un arbitro sbaglia, la domenica successiva non arbitra e perde immediatamente denaro. E, a fine stagione, rischia di chiudere, venendo rimandato definitivamente alle categorie da cui ha cominciato. Eppure la storia è piena di calciatori che hanno avuto 6 mesi storti, un anno sottotono e si sono poi riscattati. Chi è atleta sa che una fase di buio può arrivare in una carriera: all’arbitro, questo, non è concesso, e basta troppo poco per veder sfumare 20 anni di sacrifici. Quando è capitato a me, Nicchi mi disse che l’arbitraggio era un hobby: la mia battaglia legale comincia dall’obiettivo di cambiare questa percezione degli arbitri. Nessuno deve più permettersi di dire che arbitrare a questi livelli sia un hobby.
Non lo so. Io so soltanto che non avevo dubbi sulla mia conferma in Serie A, principalmente per due ragioni. Ero stato uno dei 3 arbitri più designati in quella stagione. E perché, nell’ultimo turno di Serie A, mi venne assegnata una sfida cruciale per la retrocessione(Udinese-Bologna, ndr): un arbitro inadeguato tecnicamente, come sarei stato ritenuto dall’AIA, non si manda ad arbitrare una sfida del genere.
Di tutto. Ricevo la continua dimostrazione di come venga riconosciuto quanto ho fatto per gli arbitri. Da tutti i miei colleghi: da quelli meno noti all’arbitro internazionale più rappresentativo. Detto questo, rimane ancora molto da fare ed il percorso da fare è ancora lungo, anche insieme alle società. L’istituzione del ruolo di Gianluca Rocchi(coordinatore della comunicazione AIA nei confronti delle Leghe di A e B, ndr) è un primo passo, ma serve un cambio al vertice. Il corso Nicchi ha fatto anche cose positive, ma oramai è palese la sua inadeguatezza: non è al passo con i tempi e la mentalità non risponde alle esigenze degli arbitri e del calcio moderno. La riprova è la costante decrescita sia dei numeri tra i nuovi arbitri, sia la riduzione di Arbitri élite a livello internazionale: l’Italia è abituata a proporre profili di assoluto rilievo, ora il rischio è che nessun italiano partecipi ai prossimi Mondiali. Ci tengo a sottolineare inoltre il grave tema della violenza che continua a dilagare: ci sono 300 casi di violenza sugli arbitri all’anno. Questo problema non viene affrontato come si dovrebbe. Non c’è la tutela necessaria, anche da un punto di vista di economico. Oggi, un giovane arbitro deve anticipare le proprie spese di trasporto e attendere 3 mesi per la retribuzione: questo aspetto certo non incentiva l’arrivo dei nuovi iscritti e, insieme alla violenza, induce i genitori a proteggere i propri figli dal mandarli ad arbitrare. È un problema serio, di cui è emblematico quanto avvenuto al giovane Bernardini: una scena assurda.
Sono stato promotore, insieme al compianto Stefano Farina, di un percorso per sviluppare ed allenare la mente e la psicologia dell’arbitro. Portai personalmente a Coverciano un mental coach, ma a Nicchi non piaceva l’idea e non venne mai ufficializzato dall’AIA, sempre chiusa a nuove idee. Ciò nonostante alcuni colleghi come Mariani, Valeri e Maresca hanno seguito le mie orme, ed hanno iniziato questo percorso autonomamente: lo scopo è lavorare su aspetti come la comunicazione, la gestione dello stress, delle emozioni, oltre che delle proteste. Sono tutti fattori fondamentali per una miglior prestazione, ma anche per una miglior immagine della figura dell’arbitro: per esempio un arbitro che gesticola non dà serenità.
Quel che l’arbitro fa al VAR noi lo facciamo da anni, a Coverciano, analizzando gli errori nei giorni seguenti alle partite. Il VAR trasla questo processo in campo: quel che veniva metabolizzato dall’arbitro in una settimana, oggi deve essere digerito in pochi secondi. L’arbitro è stato forgiato con l’intento di superare la partita ed autovalutarsi successivamente: era già complicato ammettere l’errore davanti al designatore, figurarsi ora. Sul campo. Immediatamente.
Questa componente non viene considerata abbastanza. Ci si limita a dire che evitare un errore per l’arbitro sia utilissimo, ma non si considera l’impatto psicologico che questo ha nell’arbitro nel proseguo della gara e in quelle successive. Tutto il processo di “elaborazione del lutto/errore” non viene certo facilitata se chi utilizza il VAR in maniera corretta, viene comunque penalizzato nel voto, come ho scoperto dalla lettura dei referti arbitrali in mio possesso. C’è bisogno di crescere, di valutare questo aspetto. E lo so perché l’ho vissuto. Andare al VAR è di per sé dura, ammettere un errore che incide sulla tua carriera e stipendio ancor più.
Permettimi di fare prima di tutto un appello, affinché si possa evitare di tenere queste elezioni in presenza all’Hotel Hilton di Fiumicino. Vista le tragica situazione pandemica che viviamo, vista l’elevata età media dei 400 elettori e la loro provenienza da tutta Italia, chi di competenza dovrebbe affidarsi ad una votazione online. Questa incomprensibile decisione rischierebbe di creare un potenziale focolaio, tanto che molti associati giustamente timorosi, hanno espresso apertamente il loro disappunto verso il Presidente Nicchi reo di aver assunto tale decisione, e, probabilmente, alcuni di loro dovranno rinunciare a votare, vedendo di fatto negato un loro diritto. Una votazione online sarebbe sicuramente più sicura ed economica: anche in questo l’attuale AIA dimostra tutta la sua arretratezza.
C’è bisogno pertanto di un cambio di passo, di una figura che sia proiettato al futuro. Penso che Trentalange sia la persona giusta. Innanzitutto è una persona di grande umanità e saprebbe sicuramente cambiare il volto dell’AIA, riavvicinandola alla gente. Ha idee giuste per trasportarla nel terzo millennio. Trasparenza, Condivisione, Dialogo e Progettualità sono argomenti del suo programma politico che fanno ben sperare i giovani arbitri italiani. La sua storia di istruttore FIFA ed osservatore Uefa garantirebbe quel respiro internazionale che serve a riportare gli arbitri di vertice ai livelli che competono all’Italia.
Serve fare cultura. Non è niente di così trascendentale. Il primo strumento va dato alle società. Per esempio in Inghilterra, a fine partita, c’è il cosiddetto question time, in cui i manager dei club hanno il diritto di avere risposte su episodi accaduti in campo: questo incontro garantisce innanzitutto uno sfogo “ufficiale” e contribuisce ad una cultura nella comprensione delle decisioni. Il confronto continuo migliora l’intesa tra squadre e classe arbitrale, allontanando anche le polemiche dai media: se si danno spiegazioni ufficiali al termine di ogni match, si interviene anche sulla tendenza di discutere delle questioni arbitrali nelle televisioni. Sui media invece si devono portare fonti ufficiali dell’AIA, come avviene sempre in Inghilterra: ogni lunedì, su Sky Sport un allenatore, un giocatore ed emissario della PGMOL(l’ente arbitrale inglese,ndr), analizzano gli episodi più controversi del weekend dando una versione ufficiale della decisione corretta che sarebbe dovuta essere presa. Da qui si inizia a fare cultura.
Io ho sempre privilegiato il dialogo, anche nell’errore. E questo approccio ha sempre pagato. Non bisogna nascondersi dietro alla figura autoritaria dell’arbitro, ma essere autorevole e spiegare le decisioni, anche qualora siano sbagliate. Da qui, bisogna partire. Ed è cruciale che le società siano totalmente partecipi, anche solo per il fatto che in questo momento sono le componenti che principalmente veicolano la comunicazione sui media.