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Riserva di Lusso

·6 ottobre 2020

José Leandro Andrade, la Maravilla Negra

Immagine dell'articolo:José Leandro Andrade, la Maravilla Negra

Icona, bohemien e leggenda: andiamo alla scoperta del primo grande fuoriclasse di colore del calcio mondiale. José Leandro Andrade, la Maravilla Negra dell’Uruguay dei record.

Salto è la seconda città più grande dell’Uruguay, per dimensioni e numero di abitanti, così diversa da Montevideo, la capitale. Non solo per dettagli geografici, ma anche per alcune caratteristiche che poi sono entrate nella storia delle persone che, a Salto o Montevideo, ci sono nate.


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Montevideo fronteggia, ai lati del Rio de la Plata, l’immensa Buenos Aires. È una città di mare, aperta al mondo, pur essendo la più a sud tra le capitali sudamericane. Fu tra le prime tappe del viaggio attorno al globo di Ferdinando Magellano; uno dei marinai della spedizione fu impressionato da quello che oggi è chiamato il Cerro de Montevideo, la collina a ponente della capitale.

Monte vide eu.

“Vedo un monte”, la traduzione. “Montevideo” così divento leggenda.

Salto, al contrario, divide con la città argentina di Concordia il fiume Uruguay. Si trova a nord del Paese, in posizione diametralmente opposta rispetto a Montevideo: non sarà stato facile arrivarci, così al riparo da tutti. A metà Ottocento, la Battaglia di San Antonio, episodio della guerra civile uruguagia tra blancos e colorados, rese memorabile a Salto e in tutto il Sudamerica l’impegno di Giuseppe Garibaldi e di tutta la Legione Italiana nella Guerra Grande.

È evidente, per questi presupposti, che le differenze tra chi nasce a Montevideo e chi conosce la vita a Salto possano essere grandi. Sarà, anche per questo, che a Salto, terra di cedri, agrumi e allevamenti, sono nati tre calciatori di fama mondiale, tre calciatori che, ognuno per proprio conto, hanno scritto e stanno scrivendo la storia del pallone.

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Edinson Cavani (14 febbraio 1987), El Matador, nato a Salto, ma trasferitosi presto a Montevideo, origini e passaporto italiano. Luis Suarez (24 gennaio 1987), El Pistolero, nato sempre a Salto, in uno dei quartieri peggiori della città, salvatosi sempre a Montevideo e in tante altre città del Mondo. E poi? Sì, il terzo.

Andrade, bohémien uruguaiano

José Leandro Andrade (20 novembre 1901), la Maravilla Negra. In sintesi: Campione Olimpico nel 1924 e nel 1928, Campione del Mondo nel 1930, uno dei centrocampisti più forti di sempre. È un mediano o una mezzala destra, tra i primissimi giocatori di colore a impressionare l’Europa, forse il primo.

Elegante, potente, capace di giocare in tutti i ruoli del centrocampo, di interpretare tutti gli stili, aggressivo e tecnico, fisico e tattico. Un ballerino di tango capace di scrivere le regole del gioco del calcio e di interpretarle a suo modo, facendo del pallone un set di straordinarie storie e incredibili aneddoti.

Perché quella di Andrade è una storia da leggenda, fin dal principio: nato dalla relazione tra un’argentina e un brasiliano di 91 anni, esperto di magia africana, ballerino e musicista, amante del Carnevale, cresciuto nel quartiere Palermo a Montevideo. Sarebbe già abbastanza così. O forse no, perché la storia racconta che il piccolo José, alla nascita, avesse un problema ad entrambi i piedi. Problema risolto dal padre stregone con una magia che lo avrebbe reso uno dei calciatori più forti al mondo.

In patria, Andrade era già stella, ma agli occhi del mondo, lo diventa alle Olimpiadi di Parigi del ’24. L’Europa non aveva mai visto giocare così tanto bene un calciatore di colore, con Pelé che non era neanche lontanamente contemplato nei pensieri di papà Dondinho. Andrade è un calciatore totale, nel senso che in campo fa la differenza eccome, portando l’Uruguay ad un oro senza precedenti.

Fuori dal campo si diverte ad essere bohémien come pochi, poiché sentiva il bisogno di essere stella totale: scarpe di vernice, notti alcoliche, colpi da ballerino, vestiti eleganti, storie d’amore e di sesso. Come quella con Josephine Baker, la prima star nera di Parigi, tra le vedette più apprezzate di Saint Louis, Broadway e Parigi. La Venere Nera accanto alla Maravilla Negra. Iconici.

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Eduardo Galeano, eccellente narratore delle vicende uruguaiane, lo inquadra così:

Divenne un errante bohémien, re dei cabaret. Le scarpe di vernice presero il posto delle calzature sbrindellate che si era portato da Montevideo, e un cappello a cilindro sostituì il suo berrettino consunto. Le cronache dell’epoca salutano l’immagine di quel sovrano delle notti di Pigalle: il passo elastico da ballerino, l’espressione sfacciata, gli occhi socchiusi che osservavano sempre da lontano e uno sguardo assassino; fazzoletti di seta, giacca a righe, guanti bianchi e bastone con impugnatura d’argento.

Trionfi e tournée

La carriera in Uruguay, al Nacional, è una parentesi tra le sue conquiste europee. In Uruguay il calcio (esclusa la Nazionale) non vive un bel periodo e l’Europa che si è innamorata della Celeste a Parigi invita i Tricolores per una lunghissima tournee nel Vecchio Continente. È la Gira del 1925: il Nacional la prepara con una squadra fortissima che replica la Nazionale. Hector Castro, Pedro Petrone, Hector Scarone, Josè Nasazzi. Sì, c’è anche El gran mariscal, il grande maresciallo, uno dei difensori più forti di sempre.

E, naturalmente, c’è anche José Leandro Andrade. Sarà un anno di imprese per la Maravilla Negra, un anno che è ancora preludio del culmine della sua carriera. Culmine che arriverà ad Amsterdam per le Olimpiadi del 1928: in Olanda l’Uruguay domina, ma il destino mette davanti ad Andrade il palo di una porta, contro l’Italia. José ci sbatte così forte da perdere praticamente l’uso di un occhio.

La vita sregolata non lo aiuta a recuperare per bene, ed inizia una parabola in discesa che si interromperà solo per il Mondiale del 1930, in Uruguay, il primo della storia. Allo Stadio del Centenario, in finale, Andrade è ancora al centro del gioco uruguagio: il 30 luglio, davanti a più di 68.000 spettatori, la Celeste batte 4-2 l’Argentina celebrando il trionfo di un popolo, la magia di uno sport che si ripete da 100 anni e chissà per quanti decenni ancora.

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La Maravilla Negra è il primo idolo internazionale del calcio: lo amano in Sudamerica, lo celebrano in Europa. Giocherà ancora, ma senza lasciare traccia; eppure, gli ultimi capitoli di una storia meravigliosa sono ancora leggenda.

Nel 1950, in Brasile, per il Maracanazo è in tribuna ad applaudire suo nipote, Víctor Rodríguez, che per omaggiare lo zio aveva aggiunto Andrade al cognome paterno. Sei anni dopo, è distrutto davanti a Fritz Hack, un giornalista tedesco che decide di cacciare il fenomeno che fu nei quartieri più poveri di Montevideo, rimanendo stordito da come un grande campione del calcio che fu si fosse ridotto in fin di vita.

Quella che vidi in Calle Perazza in una specie di sotterraneo fu una scena di orrore. Incontrai Andrade in un tugurio spartanamente ammobiliato, lui s’era dato totalmente all’alcol ed era completamente cieco ad un occhio. Mi disse che non poteva rispondere alle mie domande. Le risposte me le diede una bella donna, la sorella del vecchio campione olimpico.

Nel 1957, il 5 ottobre, muore solo, malato e roso dai ricordi. Accanto al suo corpo una scatola di scarpe con le medaglie raccolte in giro per il mondo. La firma ce la mette ancora Galeano:

L’Europa non aveva mai visto un nero giocare al calcio. Fu nero, sudamericano e povero il primo idolo internazionale del calcio.

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