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·23 de junio de 2025

Sarri: "Tornato per amore, non per logica. Da anni la Lazio è in cerca del salto di qualità"

Imagen del artículo:Sarri: "Tornato per amore, non per logica. Da anni la Lazio è in cerca del salto di qualità"

Maurizio Sarri si racconta a tutto tondo ai microfoni di Sky Sport, in occasione del suo Clinic a Castiglione della Pescaia, l’evento formativo rivolto ad allenatori e professionisti del mondo calcistico. Nell'intervista esclusiva il tecnico toscano ha parlato a margine dell'evento riflettendo sul suo ritorno sulla panchina della Lazio, le difficoltà personali affrontate nell’ultimo anno e uno sguardo lucido sul futuro del calcio italiano.

Maurizio Sarri a Sky Sport

Devo innanzitutto ringraziare la Valletta Beach Club, un’organizzazione davvero straordinaria. L’iniziativa è nata per sostenere alla società del mio paese, dove ho giocato fin da ragazzo e ho trascorso cinque anni in prima squadra. Poi ho capito che condividere la mia esperienza con tecnici più giovani mi gratificava, e oggi lo faccio con sempre maggiore entusiasmo.

Che messaggio si può lanciare ai giovani in questi contesti?

Non è importante concentrarsi subito sugli aspetti tattici. I ragazzi devono avere delle idee e insistere su quelle, anche sbagliando. Solo con l’errore e l’esperienza si affina la visione di gioco. E soprattutto, è fondamentale restare se stessi: fingere non serve a nulla, in questo ambiente la maschera dura poco.

Come descriverebbe il calcio di oggi?

Oggi il calcio appartiene a chi ha idee efficaci. In Italia si sta imponendo una visione molto fisica e orientata all’uno contro uno, specie in fase difensiva. In Europa, invece, prevale un calcio più orientato sul controllo del pallone e la capacità tecnica, sia nei club sia nelle nazionali. Prendiamo il Portogallo, la Spagna o il Paris Saint-Germain: sono esempi di una filosofia diversa, più orientata alla costruzione. I modelli non sono più univoci.

Dopo l’eliminazione dell’Italia, si parla di mancanza di talento. È davvero così?

Il vero problema è che oggi c’è poca connessione tra i club e la Nazionale. È una tendenza che va avanti da anni. Non credo che più del 15-20% dei giocatori in Serie A siano convocabili per la Nazionale. E non succede solo in Italia. Paradossalmente, i club italiani hanno ottenuto buoni risultati in Europa – secondi e terzi nel ranking UEFA negli ultimi due anni – ma la Nazionale resta fuori dai Mondiali da tanti anni. Questo dimostra quanto si sia ampliato il divario tra calcio di club e calcio internazionale.

Come definirebbe il "calcio di Sarri"?

È un gioco che si fonda sull’organizzazione, su una squadra corta e compatta che si muove come un blocco unico. Mi piace tenere il controllo del gioco in fase offensiva, ma non sempre ho avuto a disposizione squadre adatte a farlo. Tutti si aspettano che ogni mia squadra giochi come il mio Napoli del 2018, ma ogni gruppo ha caratteristiche proprie. Il compito dell’allenatore è avere una visione, ma anche adattarsi ai calciatori per esaltarne i pregi e non evidenziarne i limiti.

Cosa le ha dato più soddisfazione: i trofei o il percorso?

Senza dubbio il percorso. Ho avuto la fortuna di divertirmi nel mio lavoro, e questo è impagabile. I tre anni al Napoli mi hanno dato più gioia dei trofei vinti. In Italia si esalta troppo la vittoria: anche chi vince una coppa minore viene celebrato come se avesse fatto una grande stagione. Ma spesso le squadre più ricordate non sono quelle che hanno vinto. Pensate all’Olanda degli anni ’70, o al Napoli di Vinicio: esempi che hanno lasciato un segno pur senza titoli.

Ha vissuto un anno di stop: è stato penalizzato dalla sua personalità?

Il mio ultimo anno è stato legato a motivi personali, per mesi non ho avuto alcun interesse per il calcio. Quando sono tornato alla normalità, ho ricominciato a pensare alla mia professione. Ma è vero che, se hai una personalità forte, puoi entrare in conflitto. Io magari archivio lo scontro subito, altri no. E questo si paga.

Il ritorno alla Lazio è stato inaspettato. Perché ha scelto di tornare?

È stata una scelta dettata dal cuore. Alla Lazio mi sento a casa, apprezzato da tutti, dai magazzinieri ai fisioterapisti. Non è stata una scelta logica: sono arrivato secondo, e migliorare quel risultato è difficile. Ma il legame umano ha prevalso.

Cosa si aspetta dalla Lazio e cosa può aspettarsi la Lazio da lei?

È un ritorno per affetto, anche verso i tifosi. Posso promettere solo impegno e passione, non risultati. Da anni la Lazio tenta il salto di qualità ma non riesce a compierlo. È un segnale che qualcosa manca, ma questo vale per tutto il calcio italiano. Vedremo se sarà il ciclo giusto.

Ha detto che "la lazialità ti invade": cosa intendeva?

Da fuori non si percepisce davvero cosa sia. Solo vivendo dall’interno ti rendi conto di quanto amore e passione ci siano. Il 90% dei tifosi ha la Lazio dentro in modo viscerale, quasi folle.

Lei ha sempre detto che un allenatore deve divertirsi. Perché è così importante?

Perché il divertimento è contagioso. Se l’allenatore lo trasmette, la squadra lo percepisce. Ma non si tratta di divertirsi durante l’allenamento, bensì lavorare duramente per poi dominare il gioco. Se due o tre giocatori iniziano a divertirsi, in poco tempo lo fa tutta la squadra, e poi anche i 40-50 mila sugli spalti. A Napoli ho capito che quando tutto lo stadio si diverte, si riesce ad accettare persino la sconfitta.

Quest’estate è stata piena di cambi in panchina. Che segnale è?

Un segnale negativo. Vuol dire che gli allenatori hanno poco tempo. Klopp diceva che giudicare un tecnico dopo un anno è assurdo. In Italia a volte bastano tre partite. Solo Gasperini ha avuto la possibilità di costruire un progetto a lungo termine. E infatti a Bergamo l’Atalanta è diventata parte della cultura della città. I casi più belli del calcio sono quelli: Ferguson allo United, Guardiola al City, Klopp al Liverpool. Sono allenatori che hanno plasmato mentalità. Da noi in Italia è più difficile, ma è quella la vera strada.

Cosa la colpisce di più di un allenatore?

Il coraggio di Luis Henrique mi è rimasto nell'anima. Ha avuto il coraggio di rinunciare a grandi stelle, ha puntato su giovani del 2005 e ha vinto. Quando disse che il PSG avrebbe giocato meglio senza Mbappé lo presero per matto. Alla fine aveva ragione lui.

Ama molto la Premier League. Perché?

È un campionato straordinario, come l’NBA nel basket. Si vede dalla qualità di gioco, dagli stadi, dalle infrastrutture e dalla cultura calcistica. In conferenza stampa ci sono giornalisti da tutto il mondo. Lì ti accorgi della vera dimensione del calcio inglese.

Lei ha detto: “Io non credo che giocando male pur di vincere si arrivi. Io credo che giocando bene alla fine si vince”

Sì. Una volta, a Empoli, dopo un pareggio mi chiesero se pensavo di salvarmi giocando così. Risposi: “Perché giocando male mi salvo?”. Credo che esprimere il proprio calcio al meglio aumenti le probabilità di vincere. Poi certo, non tutti la pensano come me.

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