Lazionews24
·02 de agosto de 2025
Serse Cosmi: «Ecco come giocava il figlio di Gheddafi»

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La sua grinta, la sua passione e il suo immancabile cappellino lo hanno reso uno dei personaggi più iconici del calcio italiano. Serse Cosmi, allenatore sanguigno e mai banale, si racconta oggi in una lunga intervista al Corriere della Sera, offrendo la sua visione senza filtri sulla Serie A che sta per iniziare.
GAUCCI – «Gaucci lo metto davanti a tutti, ma in senso positivo. Vi assicuro che era realmente diverso da come si voleva porre, nella vita normale era un’altra persona. E questo aspetto mi faceva impazzire. Quando ho iniziato ad avere più confidenza glielo dicevo. Lui mi guardava e si metteva a ridere. Era un cavallo di razza».
IL FIGLO DI GHEDDAFI MERITAVA LA SERIE A – «Non è la domanda giusta. Chiaro che come calciatore non la meritava. Però non pensate che Gaucci fosse talmente pivello o stupido da prenderlo senza motivo, tant’è vero che con il Perugia giocò in tutto 12 minuti. Dietro c’era un disegno molto più sofisticato».
COM’É STATO ALLENARLO – «Lo stesso Gheddafi non pensava di essere un grande giocatore. Però da lui ho imparato una grande lezione: lui in quel momento aveva il mondo in mano e si è impegnato a fondo per realizzare il grande sogno di giocare qualche minuto in Serie A. Coltivava il desiderio che può avere qualsiasi bambino».
PERCHÉ LO CHIAMANO L’UOMO DEL FIUME – «Sono nato a Ponte San Giovanni, sul Tevere. Sono stato un bambino dell’ultima generazione che ha imparato a nuotare nel fiume.
L’ADOLESCENZA – «Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza bellissime che mi lasciano ricordi nostalgici. Avevamo tutto quello che bastava. La pesca nel fiume, la balera dove conoscere le prime fidanzate. E poi le partite infinite a calcio che erano dettate esclusivamente dal giorno e dalla notte. Non c’era bisogno di orologi, quando cominciava a far buio tornavamo a casa e la mattina dopo eravamo già pronti a rivivere la giornata. Era una Disneyland meravigliosa, l’unico brutto ricordo è legato alla morte di mio papà quando avevo 15 anni».
GIOCAVA NELLA SQUADRA DEL PAESE – «Ho fatto la trafila, allora non si chiamava scuola calcio, aggiungo io per fortuna. La “scuola” restava in mezzo alla strada. Eravamo bambini liberi di coltivare la nostra passione senza le ossessioni e gli assilli delle generazioni di oggi».
FANTASISTA – «Ho frequentato la Serie A in un altro ruolo e ho capito che mi mancava tutto, a parte la passione. Ero il classico giocatore che non avrei mai voluto allenare».
IL CALCIO ITALIANO PEGGIORATO PERCHÉ NON SI GIOCA PIU’ IN STRADA – «Non solo per questo. Ma sicuramente è venuto a mancare un elemento primitivo che ne ha fatto perdere l’essenza. Con gli amici giocavamo dalla mattina alla sera, globalmente in un giorno giocavo quello che gioca un bambino oggi in una settimana. Io come tutti i miei coetanei».
IN COSA UN GIOCATORE LA FACEVA ARRABBIARE – «Quando non si divertiva. Quando subiva il suo mestiere, o meglio, quando il suo privilegio diventava solo un mestiere. Se un calciatore non capiva la fortuna che aveva mi mandava al manicomio».
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