Inter News 24
·8 giugno 2025
Zanetti racconta: «Triplete? Abbiamo dato tutto, eravamo grandi uomini prima che calciatori. La mia scelta di fare il dirigente…»

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·8 giugno 2025
Intervenuto sul palco a Belluno in occasione del Festival sull’economia dello sport nell’evento a lui dedicato ‘Capitano e leggenda, storia di una vita in nerazzurro’, il vicepresidente dell’Inter, Javier Zanetti, ha parlato così.
IL RUOLO DA VICEPRESIDENTE NELL’INTER – «Non voglio essere un dirigente legato solo alla parte sportiva. Voglio che l’Inter mi possa utilizzare anche come altro tipo di risorsa. Credo che per far funzionare la squadra che scende in campo deve esserci una squadra altrettanto forte fuori dal campo per sostenere la squadra».
COSA AVEVAMO IN PIU’ QUANDO ABBIAMO FATTO IL TRIPLETE? – «Eravamo una grande famiglia, eravamo grandi uomini prima che grandi calciatori che con un grande condottiero come José che ci ha convinto che era possibile. E ad ogni difficoltà avuta e che superavamo sapevamo di poter arrivare fino in fondo. Un allenatore con grande personalità, un gruppo che voleva rimanere nella storia del club e lo ha fatto dando tutto quello che aveva. La dimostrazione è stata la semifinale col Barcellona, in quella gara lì, in 10 con quel Barcellona lì ha detto cosa eravamo».
DETERMINAZIONE E MENTALITA’ – «Mentalità grande e grande cultura del lavoro. Eravamo una cosa sola e questo ci ha permesso di vincere tutto».
SE DA PICCOLO SOGNAVO LA SERIE A? – «Fin da bambino giocavo con i miei amici in Argentina e mi facevo la cronaca delle partite e sognavo di giocare ma non avrei mai sognato che una società come l’Inter mi comprasse così giovane. Non pensavo arrivasse così in fretta. Quando sono arrivato a Milano avevo paura, non sapevo se ero pronto a confrontarmi con grandi campioni come quelli di allora in Serie A. La gara col Vicenza è stata la prima di 858 e giocare indossando con una sola maglia è stato importante. Mi sono innamorato dell’Inter, una famiglia, resiliente, che guarda al di là del campo, è un traguardo, una responsabilità sociale, i valori che condivido e per questo sono rimasto. Abbiamo avuto difficoltà con unica vittoria la Coppa UEFA, non ho mai pensato al lato economico, non era importante, contava come mi sentivo in questo club. Al di là delle difficoltà volevo vincere con l’Inter e fare la storia con l’Inter, al di là delle offerte ricevute».
TANTI CAMPIONI INCONTRATI – «Mi ha accolto Bergomi, mi ha aiutato tanto. Mi ha accolto Facchetti con Rambert in una giornata con il diluvio universale. C’erano Angelillo, Suarez, Corso, persone che avevano fatto Grande l’Inter. Mi piaceva ascoltarli e mi hanno trasmesso tanto. Per me una grande possibilità».
LO SPOGLIATOIO DEL TRIPLETE – «Divertente, c’era Maicon. Facevamo le grigliate e rimanevamo le ore dopo l’allenamento a fare gruppo. Al di fuori si deve creare questo ambiente e stavamo tutti bene insieme. Chiave del successo? C’è stata grande alchimia tra noi, società, tifosi e squadra. Alla finale di Madrid scendiamo nel riscaldamento e c’era pieno di tifosi dell’Inter e pensavamo che non potevamo non vincere con tutta la gente che c’era a Madrid e che c’era a Milano ad aspettarci. 45 anni che non vinceva la Champions. Ero alla 700esima con la maglia dell’Inter. Quando ho alzato la Coppa non ero io, era talmente tanta la felicità ed emozionato che mi sono passati in mente tutti gli anni all’Inter. Le interviste che mostravano la gente: incredibile, per questo dico che il tifoso dell’Inter è unico. La più difficile è stata quella col Barcellona. Lo racconto a mio figlio Tomas e io ho ancora paura che ci facciano il gol del due a zero. Soffertissima, interminabile. C’era Eto’o che difendeva davanti a me e siamo andati a marcare Messi, gli ho detto manca poco. Ma mancava ancora tutto il secondo tempo. In quella partita lì era talmente tanta la voglia di andare in finale che lo spirito di gruppo ce l’ha portato».
SE C’E’ MAI STATO UN MOMENTO DELLA MIA CARRIERA IN CUI MI SONO SCORAGGIATO? – «No, perché sinceramente sono positivo e nelle difficoltà mi rialzo e ritento, ma le sconfitte del passato sono state dure da digerire, dalle sconfitte bisogna rialzarsi. Ho sempre trovato per combattere e ripartire. Dicevo sempre che per vincere bisogna anche saper perdere. Abbiamo anche accettato le sconfitte. Moratti ha speso tantissimo per i grandi campioni e non arrivavano vittorie, ma ero convinto che il momento doveva arrivare. Per fortuna poi il tempo mi ha dato ragione».
IL PIU’ DIFFICILE DA MARCARE? – «Attaccanti tanti, ne ho affrontato di fortissimi. Scelgo Giggs, giocatore straordinario, tutte le volte che ci siamo affrontati facevamo i km. Anche il primo Kakà del Milan era difficile da marcare».
IDOLI DI INFANZIA – «Lothar Matthaus sicuramente. Nella vita mio idolo mio padre, mi ha insegnato i valori che mi hanno accompagnato nel calcio e nella vita. Ho capito cosa significa il sacrificio vero, che niente è scontato, nulla è dovuto, che senza sacrificio non si ottiene nulla».
SE HO MAI PENSATO DI VOLE FARE L’ALLENATORE? – «Penso che bisogna sentirlo dentro. Mi vedevo più come dirigente, mi ci sentivo più portato. Studiando sto imparando tantissimo e mi rendo conto di tutte le difficoltà che ci sono, le dinamiche che cambiano ogni giorno. Decisioni da prendere in fretta per le quali devi essere preparato. Penso che le difficoltà aiutino a crescere. Aiutano a diventare più forti. Magari oggi si pensa che tutto sia semplice, le nuove generazioni vogliono tutto in fretta, vogliono la scorciatoia. Può aiutarti in alcuni momenti ma non basta».
VINCERE TUTTO E VINCERE SEMPRE È DIVENTATA UN’ESIGENZA DEGLI SPETTATORI: C’ERA PIÙ PAZIENZA PRIMA? – «È difficile nel calcio avere tempo e per questo gli allenatori si trovano in difficoltà. Non hanno tempo per trasmettere le loro idee. C’è un periodo di adattamento sempre, che non è semplice e facile. Se hai una società dietro che ti supporta, se si sceglie un allenatore non si deve cambiare alla prima difficoltà. La società ha il dovere di sostenerlo. La società forte dietro è fondamentale».
QUANTE VOLTE TORNO IN ARGENTINA? – «Amo l’Argentina e amo l’Italia. Per me rappresenta qualcosa di importantissimo nella vita. I miei figli sono italiani, nati a Milano. Credo che difficilmente torneremo in Argentina a vivere. Torniamo a Natale e a fine stagione, ma il nostro posto nel mondo è ormai il Lago di Como. Per noi l’Italia è una grande famiglia. Quando siamo andati a San Siro a vedere una partita della Nazionale, quella contro la Svezia che ci ha levato il Mondiale, i miei tre figli piangevano dopo la sconfitta che ci ha eliminato dalla finale. Per dirvi quanto ci teniamo a questo Paese. C’è stata un’amichevole Argentina-Italia e mio figlio più piccolo aveva entrambi le maglie, poi ha vinto l’Argentina e si è tolto la maglia dell’Italia. Mio bisnonno era friulano, provincia di Pordenone e ho la cittadinanza italiana».
UN CONSIGLIO DA DARE AD UN RAGAZZO CHE VORREBBE FARE LA MIA CARRIERA? – «Prima di non smettere mai di sognare perché se uno vuole fortemente qualcosa deve cercarlo. Ci sono difficoltà sul percorso ma se uno vuole qualcosa deve prendersela, serve convinzione per farcela. Ho fatto il muratore con papà. Giocavo nelle giovanili dell’Independiente e mi hanno detto che ero piccolo e non crescevo quindi non ero in grado di giocare a calcio. Mio papà in una delle poche pause mi chiese cosa volevo fare da grande e gli ho detto voglio fare il calciatore. Mi ha detto di provare ancora. Da lì è iniziata la mia carriera».
SU MORATTI – «Un papà. Rappresenta uno dei papà di questa grande famiglia che è l’Inter. Ha creduto in me quando ero uno sconosciuto. C’erano ancora le video cassette. C’erano Mazzola e altri osservatori in Argentina. E loro cercavano il numero 10, Moratti gli disse comprate il numero 4. Mi piace il numero 4 che ero io. Così è andata. Una persona straordinaria, come tutta la sua famiglia. Abbiamo festeggiato 80 anni con lui c’eravamo in tanti. Con lui resterà sempre un legame fortissimo. Quel calcio romantico, sentimentale sia difficile rivederlo».
SE PREFERISCO “PUPI” O “EL TRACTOR”? – «Mi giro subito. Ma in tanti mi chiamano Pupi, è il nome della mia Fondazione e mi piace che mi chiamino così. Viene dall’Argentina. Chiamavano così mio fratello e lo stesso allenatore mi aveva trasferito questo soprannome».
IL MILAN CON LO ZOCCOLO DURO ITALIANO E L’INTER ARGENTINO? – «Ero da tanto all’Inter, poi sono arrivati tanti argentini rimasti a lungo. All’epoca si diceva che eravamo tutti stranieri ma questi giocatori quando scendevano in campo erano l’Inter e volevano vincere per lei, non importava da dove veniva. È stata la nostra forza. Affrontare quel Milan di Maldini, Baresi, Tassotti, Costarcurta c’era rivalità e rispetto. C’è tutt’ora, ci sarà sempre».
IL RAPPORTO CON I TIFOSI – «Come io ho sempre rispettato tutti i tifosi e i tifosi si sono accorti e mi hanno rispettato. Per me i tifosi interisti sono unici, mi hanno adottato dall’arrivo a Milano e l’affetto e l’amore che mi dimostrano è molto forte. Un legame che resterà sempre, c’è stesso amore da parte mia ovunque mi trovi. E anche i tifosi avversari mostrano rispetto nonostante la rivalità. I tifosi sono fondamentali e lo saranno sempre. Per la squadra sono importantissimi. Per me sono la cosa più importanti».
LO SPORT UN MAESTRO DI VITA PER ME? – «Una palestra di vita che mi ha fatto crescere come persona. Sono valori unici che uno si porta dietro sempre. Abbiamo una grande responsabilità e questi valori vanno sempre trasmessi. Siamo da esempio per tanti bambini, dobbiamo stare attenti a tutto».
SE DICO QUALCOSA AI GIOCATORI DELL’INTER SU QUESTI VALORI? – «Sì perché un giocatore non è solo quello che fa in campo ma anche quello che fa fuori. Siamo adulti e responsabili, siamo esempi per tanti giovani che ci seguono e guardano e l’attenzione deve quindi essere massima».