Riserva di Lusso
·17 ottobre 2020
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Oggi festeggiamo e ripercorriamo la storia di uno dei calciatori più suggestivi del panorama sudamericano e mondiale. Buon viaggio, insieme al più grande vagabondo che il fútbol abbia mai visto: Sebastian Abreu.
Paolo Maldini, Javier Zanetti, Alex Del Piero e Francesco Totti per i tifosi nostrani. Gli esterofili ci aggiungerebbero anche Carles Puyol, Philipp Lahm, Ryan Giggs o Steven Gerrard. Fuoriclasse che hanno legato il proprio nome ad una squadra e ad una maglia, salutate a distanza di anni con immensa fatica (e tante lacrime). Campioni capaci di emozionare generazioni di tifosi, far battere all’unisono i cuori di un intero stadio. Eroi cittadini, rispettati e venerati anche dagli avversari più agguerriti. Protagonisti di un sogno che i bambini immaginano di emulare quando non riescono a dormire. Nell’immaginario collettivo sono questi i calciatori che più si sposano con il concetto di “Leggenda”.
Ma se il mondo è bello perché è vario, neanche quello del calcio può essere da meno. Accade così, paradossalmente, che esista un personaggio considerato leggendario proprio in virtù della sua “infedeltà”. Un cavaliere errante, sempre in cerca di nuove avventure. Un nomade instancabile, che per vivere ha bisogno di cambiare continuamente prospettiva. Il suo nome, ovviamente, è Washington Sebastián Abreu Gallo, passato alla storia semplicemente come Sebastián Abreu.
Il suo soprannome, El Loco, un biglietto da visita chiarissimo. E quanto mai azzeccato, perché, dietro tutto questo, si può nascondere solo una colazione a base di latte (o forse mate? ) e pazzia. Altrimenti non si spiega in che modo un calciatore possa giocare per 29 club diversi in una sola carriera. Somma che, contando ritorni, “ri-ritorni” e “ri-ri-ritorni”, porta il totale dei trasferimenti a 34. Pura follia.
E pensare che Sebastian neanche lo doveva fare il calciatore. O meglio, non era quella l’unica priorità: durante l’adolescenza, infatti, si divide tra diversi sport. Ad undici anni inizia a giocare nelle giovanili della squadra cittadina, il Nacional de Minas ma, al contempo, eccelle particolarmente nel basket. La sua altezza e il suo fisico, che risultano un po’ fuori luogo sui campi da calcio, si rivelano invece risorse non indifferenti con la palla a spicchi.
Abreu stesso, durante un’intervista, ha reso pubblico un aneddoto riguardo i suoi primi anni adolescenziali. A quanto pare, all’epoca, non si limitava a partecipare alle competizioni sportive. Essendo un redattore del giornale cittadino, il suo compito era anche di commentarle. Un giorno, il suo capo gli chiese di coprire la finale giovanile di basket tra Libertad e Olympic, una partita che lui stesso avrebbe disputato. L’incontro finì con la vittoria del Libertad di Sebastian, il quale divenne campione e venne eletto miglior marcatore e giocatore del torneo. Il protrarsi dei festeggiamenti lo costrinse a scrivere la cronaca del match a mezzanotte inoltrata, ora in cui non era più possibile intervistare qualcuno. Così, gli venne la pazza idea di porre le domande a se stesso, scrivendole nell’articolo insieme alle sue risposte. Pare che il caporedattore, nonostante l’aspetto divertente della vicenda, non l’abbia presa tanto bene…
Alla fine, il giovane Abreu viene anche convocato dalla rappresentativa U16 della nazionale uruguaiana di basket. Il destino, però, serba altre carte per il suo futuro: in seguito ad una vittoria, lui e alcuni suoi compagni decidono di passare la notte in un pub vicino alla sede del ritiro. Ovviamente, vengono scoperti dai dirigenti, ma a farne le spese è solo Sebastian, che viene individuato come capro espiatorio e rispedito a casa. Questo evento nefasto segna e preclude per sempre quella che, secondo molti, sarebbe stata una promettente carriera da cestista.
Da quel momento, il giovane Abreu si concentrerà esclusivamente sul calcio. E i risultati non tarderanno ad arrivare. Viene subito convocato dall’Under 17 dell’Uruguay per un torneo in Colombia tra le nazionali sudamericane, mettendosi in luce con una doppietta negli unici 45 minuti giocati. Alla fine della competizione, se lo contendono già Cerro Porteño, Peñarol, Nacional, Danubio e Defensor Sporting.
Sarà proprio quest’ultimo, il Defensor, a spuntarla, vincendo la contesa con gli altri top club nazionali. Nel giro di un’anno Sebastian approda in prima squadra, debuttando all’età di 17 anni: siamo già a quota uno. Dalla città di Montevideo inizia quindi il lunghissimo viaggio, ancora in corso, di colui che può essere considerato il Ferdinando Magellano del futbol.
La tappa seguente è l’Argentina: nel 1996 passa al San Lorenzo, dopo essersi messo in luce in Copa Libertadores. Ci giocherà per una stagione e mezza, prima di sorvolare l’Atlantico per approdare in Spagna, al Deportivo La Coruña. Il Dépor, in quel periodo, si preparava ad entrare nel ciclo più vincente della sua storia, culminato con la vittoria di un campionato e una semifinale di Champions League. Erano i tempi di Pauleta, Roy Makaay, Pablo, Flores, Mauro Silva… In questo contesto Sebastian fatica a trovare una dimensione, complici anche alcuni errori grossolani sotto porta. Va quindi incontro ad una serie di prestiti.
Il primo lo porta in Brasile, a Porto Alegre, per giocare alcuni mesi con il Grêmio. Questa non è la sua unica esperienza in terra brasiliana. Dal 2010 al 2012 militerà per due anni e mezzo (la permanenza più lunga della sua carriera) al Botafogo, vincendo un Campionato Carioca e vivendo uno dei suoi periodi migliori. Senza dimenticare i sei mesi seguenti alla Figueirense, il periodo al Bangu (squadra minore di Rio) nel 2017 e la penultima (per ora) tra le sue tappe al Rio Branco, in Serie D.
Con il secondo prestito dal Deportivo, invece, nasce il fortissimo legame tra Abreu e il campionato messicano. A partire dal 1999, anno in cui sbarca al Tecos di Zapopan, giocherà infatti per sette club messicani diversi. In ordine cronologico Tecos appunto, Cruz Azul, América, Dorados (dove incontra Guardiola), Monterrey, San Luis e Tigres. La Liga MX si rivela uno degli habitat più adatti alla sua esplosione: sarà per ben quattro volte il miglior marcatore del torneo. E lascerà un ricordo ovunque, sia positivo che negativo. Perché solo la follia degna di un Loco poteva portarlo a passare sia dal Monterrey che dal Tigres, squadre acerrime nemiche e rivali nel Clásico Regiomontano. Ma ormai non ci sorprendiamo più…
Il 2000 è l’anno del ritorno al San Lorenzo, in Argentina: la stagione si chiude con la vittoria del Torneo di Clausura. Che non rimarrà l’unico. Otto anni dopo, fresco dell’exploit messicano, viene conteso a lungo dal Boca Juniors e dal River Plate di Diego Simeone. Pare che proprio una telefonata persuasiva del Cholo abbia convinto Sebastian ad optare per los Millonarios. Insieme alla paura di vedere il prato de La Bombonera solo dalla panchina, a causa dell’inamovibile Martin Palermo. A Buenos Aires, Abreu si ritrova catapultato in una squadra fortissima: Belluschi, Buonanotte, Alexis Sánchez e Radamel Falcao sono solo alcuni dei ragazzi saggiamente allenati da Simeone. Che infatti vincono la Clausura, la seconda di Sebastian, il quale in Argentina passerà ancora, anni dopo, per giocare nel Rosario Central.
Per quanto riguarda il suo Uruguay, Abreu esaudisce presto (nel 2001) il sogno di giocare per il Nacional, la sua squadra del cuore. L’Estadio Gran Parque Central diventa una vera e propria seconda casa per lui. La tifoseria gli riconoscerà il fatto di non aver mai nascosto la sua fede, neanche durante la precedente militanza nel Defensor e la successiva (2017) nel Central Español, entrambe concittadine. Il figliol prodigo e vagabondo sarà a sua volta bravo a dimostrare tutto il suo amore, a modo suo ovviamente. Alla prima avventura seguiranno infatti quattro ritorni a Montevideo: nel 2003, 2004, 2013 e 2015. In questi periodi, Abreu riceverà dal club solo un contributo simbolico, ben al di sotto degli stipendi dei suoi compagni di squadra. Fino ad arrivare al punto in cui, per diversi mesi, Sebastian chiede di non ottenere neanche un peso. Se l’amore è amore…
Ma non è tutto: El Loco ha avuto fugaci esperienze anche in tanti altri campionati: Israele (Beitar Gerusalemme), Grecia (Aris Salonicco), Ecuador (Aucas), Paraguay (Sol de America), El Salvador (Santa Tecla), Cile (Puerto Montt, Audax Italiano e Magallanes) e una seconda parentesi in Spagna, nel Real Sociedad.
Proprio in questa esperienza spagnola si colloca uno degli aneddoti più significativi della personalità del nostro Abreu. Arrivato a San Sebastián, infatti, chiede come sempre di ottenere il suo numero di maglia preferito, il 13. Ma il tecnico Juan Manuel Lillo (con il quale c’è già un ottimo rapporto, vista l’esperienza comune al Dorados) glielo proibisce. Il 13 è già stato assegnato al portiere di riserva Eñaut Zubikarai, appena promosso dalla squadra B. A questo punto l’ingegno del Loco raggiunge vette ancora inesplorate. Si fa assegnare il 18, ma da quel momento giocherà sempre con una fascia adesiva, che divide simmetricamente l’8 in due parti uguali e molto simili ad un 3.
Anche altrove Abreu si vede costretto a rinunciare al suo adorato segno di riconoscimento. Paese che vai problemi che trovi: in El Salvador il numero 13 è infatti legato alla banda de La Mara Salvatrucha, così come accade per il 18, simbolo dei rivali di El Barrio. Le due organizzazioni criminali usano queste cifre per contrassegnare i loro territori e uccidono le persone che indossano il numero nemico. Proprio per questo, molti club nazionali nel corso del tempo hanno deciso di ritirarli entrambi. Il nostro beniamino, nella sua parentesi al Santa Tecla, si è quindi dovuto accontentare di un più sobrio 22.
Comunque, nonostante queste rare eccezioni, Sebastian ha quasi sempre indossato il 13 nella sua lunghissima carriera. Tanto da legare indissolubilmente la sua figura ad un numero che rimane abbastanza inconsueto per un attaccante. Dietro a questa ossessione si nasconde l’ammirazione per il suo idolo adolescenziale Fabián O’Neill, calciatore uruguaiano che negli anni 90 si divise tra Nacional, Cagliari, Juventus e nazionale uruguaiana.
A proposito, non abbiamo ancora parlato di quella che può essere considerata a tutti gli effetti la trentesima squadra di Abreu. E l’unica che non ha mai veramente abbandonato, com’è giusto che sia: la nazionale. Con la Celeste, Sebastian ha collezionato 70 presenze e 26 gol ( il sesto nella classifica generale, dietro ad alcuni mostri sacri come Suárez, Cavani e Forlán). Ha partecipato a tre Copa América (Bolivia 1997, Venezuela 2007 e quella vinta in Argentina nel 2011) e a due Mondiali (nel 2002 e nel 2010).
Proprio in Sudafrica, El Loco compie forse il gesto più folle della sua vita. Un gesto che lo consegnerà per sempre alla storia e lo renderà famoso tra coloro che non lo conoscevano ancora. Succede tutto al First National Bank Stadium di Johannesburg, il 2 luglio 2010. Si gioca il quarto di finale tra Uruguay e Ghana, entrambe sorprese della competizione e decise a non abbandonare il proprio sogno. La partita è equilibrata: al gol di Muntari nel primo tempo risponde infatti quello di Forlán nel secondo.
Sul finire dei tempi supplementari, quando manca ormai pochissimo ai rigori, succede l’inverosimile. Mensah colpisce di testa su un corner e Suárez si ritrova sulla linea di porta a parare con le mani, sostituendo Muslera, nel frattempo uscito a vuoto. Espulsione per El Pistolero e rigore al 120′ per il Ghana. Ovviamente non sfruttato da Asamoah Gyan, che colpisce in pieno la traversa.
Inizia la lotteria, sbagliano Mensah, Pereira e Adiyiah. Il quinto rigore della Celeste è decisivo, se segna passa il turno. Indovinate chi lo tira… Abreu prende il pallone e lo posiziona sul dischetto. Ha sulle spalle il peso di un popolo intero, che non gioca una semifinale mondiale da 40 anni. Deve segnare assolutamente, non esiste un’alternativa o un Piano B. Servirebbe un rigore semplice ma efficace.
Il problema è che stiamo parlando del Loco Abreu, per il quale il condizionale non esiste neanche. Per lui la responsabilità non è un fardello, bensì un incentivo ad incrementare lo spettacolo. Ed ecco che, allora, tra lo stupore generale, Sebastian tira un cucchiaio centrale. Il tempo sembra quasi fermarsi, ma non appena Kingson si tuffa a destra, lui ha già iniziato a correre verso i propri compagni. Per quanto rimanga discutibile la sua scelta, alla fine ha avuto ragione lui senza dubbio.
Come dargli torto, poi, se le sue pazzie lo hanno portato addirittura ad entrare a far parte del Guinness dei Primati. Sì, tutto vero. Nel 2017, con il suo trasferimento ai cileni dell’Audax Italiano, è infatti diventato ufficialmente il calciatore che ha militato in più club professionistici a livello mondiale. Fino a quel momento il record era detenuto dal portiere tedesco Lutz Pfannenstiel, che tra il 1991 e il 2011 aveva giocato in 25 club diversi, sparsi in cinque continenti.
All’epoca il totale ammontava a 26. Oggi, dopo un primo ritiro (con successivo ripensamento) Sebastian è giocatore-allenatore del suo ventinovesimo club, il Boston River. Il suo ruolo da tecnico non gli impedisce però di giocare anche ampi spezzoni di gara: dopotutto la scelta di “mandarsi” in campo spetta a lui. E nonostante l’età e la competitività della prima divisione uruguaiana, a volte riesce ancora a lasciare il segno.
Un segno, un’impronta indelebile, come quella che questo personaggio ha lasciato in tutti noi appassionati di calcio. O in tutte le città in cui ha vissuto, le curve sotto le quali ha esultato, i cuori che, anche per una sola volta magari, ha fatto battere. Non è stato la bandiera che molti avrebbero voluto, la normalità non fa per lui. Abreu non si è mai voluto accontentare e mai lo farà, la sua fantasia viaggia più in fretta di qualsiasi aereo che l’abbia portato a spasso per il mondo. E noi non possiamo far altro che accettarlo e lasciarci trasportare. Augurandogli cento di questi anni e mille di queste avventure.