Pagine Romaniste
·20 febbraio 2025
Rizzitelli: “Dopo Ranieri vorrei Ancelotti, ma con una squadra all’altezza”
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·20 febbraio 2025
Ruggiero Rizzitelli, ex attaccante della Roma, ha parlato del momento dei giallorossi e delle prospettive future per la panchina. Tra riconoscenza per Claudio Ranieri e un sogno chiamato Carlo Ancelotti, l’ex giocatore ha condiviso il suo punto di vista su quello che servirebbe al club per tornare competitivo.
Intervistato da Il Romanista, Rizzitelli ha elogiato Ranieri: “Claudio ci ha salvati, ha fatto un lavoro straordinario”, aggiungendo poi un desiderio per il futuro: “Mi piacerebbe vedere Ancelotti alla Roma, ma bisogna costruirgli una squadra all’altezza”.
Un’idea suggestiva, ma che richiederebbe una pianificazione solida, viste le ambizioni e il prestigio dell’attuale tecnico del Real Madrid. Di seguito l’intervista completa.
Ruggero stai facendo il nonno?
“Sì, una meraviglia, nonno di Leonardo di due anni e mezzo. Sono stato genitore, ma quando sei nonno è un’altra cosa perché non hai la responsabilità di educarlo, devi dargli tutto il benessere possibile. Siccome sono buono, come io mi arrabbiavo con i miei genitori, mio figlio si arrabbia con me”.
Perché un giocatore importante con una storia, una carriera così grandi non è nel mondo del calcio?
“Perché non mi ci ritrovo più. Ho provato a fare la televisione con Sky, poi con la Rai, poi con Roma TV; quindi, stando fuori dalle dinamiche dello spogliatoio, perché ci sono cose che noi della vecchia guardia non accettiamo, tipo scendere a compromessi”.
Cosa intendi?
“Nei settori giovanili, ma anche in prima squadra, ci sono gli sponsor, il procuratore che ti porta questo o quel giocatore e spinge. Se uno mi dà una responsabilità io me la prendo, però me la devo gestire così poi posso dire che ho sbagliato. Come dicono a Napoli “Cornuti e mazziati” non mi sta bene: se ci metto la faccia, sbagli e meriti devono essere i miei”.
Hai parlato dell’esperienza televisiva, un giorno hai usato un’espressione molto romana per criticare un arbitro, la cosa ti ha avvicinato ancora di più a una tifoseria che ti ama, ma professionalmente ti ha danneggiato?
Sì, molto. Ho avuto problemi anche con la società. Qualcuno mi voleva fare le scarpe, mi ha detto che dovevo chiedere scusa pubblicamente all’arbitro. Siccome è stata una cosa che in quel momento sentivo da tifoso, mi sono rifiutato. Ok, l’ho detto in televisione, però è stata proprio una cosa di cuore. Non ho chiesto scusa e ai miei interlocutori ho detto se vi sta bene è così, se no vado via perché non sono qui per farmi dire cosa devo fare. Hanno capito e sono rimasto”.
Tutti dicono che il calcio è cambiato
“Assolutamente, è cambiato tutto. Ai miei tempi il presidente era tifoso, era presente, era il padre, era la persona che aveva le chiavi di Trigoria e metteva a posto, spegneva la luce. Ho detto tutto in poche parole, non credo si debba aggiungere altro. Quando vedi un presidente che ti spegne la luce, è come quando papà ti sgrida perché stai consumando inutilmente. Tutte cose oggi impensabili”.
Anche al Bayern era così?
“Sì, anche al Bayern, pure se ti chiamavi Matthaeus o Klinsmann. Ognuno aveva le proprie responsabilità, doveva fare il proprio lavoro, rispettare il tifoso. E veniva rispettato a sua volta”.
Senti, Savoldi è stato mister due miliardi, tu mister dieci miliardi. Ti è costato questo appellativo?
“Pesantissimo, perché io venivo da una società piccola come Cesena, c’erano due giornalisti che conoscevi e con cui andavi a bere, era come stare in famiglia. Quando sono arrivato a Roma ero un ragazzino di 21 anni con l’etichetta di mister dieci miliardi e alla presentazione mi sono spaventato. Il grande Dino Viola quando mi ha visto impaurito e balbettante, mi ha preso sottobraccio e mi ha detto: “Ruggiero, non ti preoccupare, qui ci sono io”, e mi ha tirato un po’ su il morale. Ma a tutta quella gente, i giornali, le radio, le televisioni, non ero abituato. Da mister dieci miliardi ci si aspetta che faccia la differenza e io ero solo un bambino spaventato”.
Il tuo primo anno con la Roma di Radice al Flaminio e un’alchimia speciale con i tifosi.
“Viola aveva fatto con Ottavio Bianchi ma il Napoli non gli ha dato il nulla osta, così è arrivato il mitico Gigi Radice ed è stato amore a prima vista. Lui, il pubblico, la squadra, i tifosi, la società. E poi il catino del Flaminio che diventò quello che aspettiamo da anni, lo stadio della Roma. Senza pista, con la gente che era veramente attaccata e ci trascinava, non si sentivano solo le urla ma anche i respiri, i nostri e quelli della gente sugli spalti. Ci siamo esaltati uno con l’altro, Radice è diventato un super tifoso, fu una stagione bellissima. Bellissima”.
L’anno dopo avete provato a convincere Viola a tenere Radice?
“No, perché c’era già un contratto in essere con Bianchi. Ma siccome si era creata questa simbiosi incredibile tra allenatore, giocatori e staff, eravamo tutti amici nel senso profondo del termine, Radice nonostante avesse tantissime richieste, non firmava con nessuno perché era della Roma e voleva restare a Roma. Mi ricordo che d’estate mi chiamò Cazzaniga, il suo secondo, per chiedermi di aiutarlo a convincere Gigi ad accettare il fatto che la Roma aveva un nuovo allenatore. Capisci che pazzia per la Roma avesse travolto Radice? Accettò un’altra squadra solo dopo la presentazione di Bianchi, pensa com’era quel calcio, quanta passione aveva dentro”.
Il gol nel derby arriva nella stagione 91-92, pareggi quello di Riedle. Te lo ricordi naturalmente.
“Madonna se me lo ricordo… Ormai ero diventato tifoso della Roma quindi non mi sembrava più di essere un calciatore, ma uno della curva sud. Sappiamo tutti che quando perdi un derby il giorno dopo stai rinchiuso in casa, non vai nemmeno a lavorare. Vedevo che l’orologio andava avanti, i minuti passavano. Ti giuro, dentro al campo mi sono detto: “Domani tutta quella gente non va in giro a farsi deridere”. Poi è arrivata questa palla a campanile di Tommasino Haessler e ho saltato più di Bergodi che mi dava 20 centimetri: è stato il gol di un tifoso che libera gli altri tifosi e permette loro di riprendere la vita normale. Noi eravamo così, se perdevi il derby non si usciva di casa”.
Hai vissuto lo stadio intero che fischiava Mihajlovic, ora sta accadendo una cosa simile a Pellegrini.
“Fa parte del calcio e in questi casi solo il giocatore puoi venirne fuori. Anche io ho affrontato momenti critici nei quali la gente contestava, ti può essere d’aiuto lo spogliatoio, un abbraccio di un compagno, ma se ne esce da soli e quello che decide è il campo. La gente ti valuta per quello che dimostri in partita”.
Secondo te il suo ciclo è finito?
“Non lo so, sembrerebbe di sì, però nel calcio basta veramente poco per cambiare tutto. Mi auguro che Pellegrini romano, capitano della Roma, tifoso della Roma, faccia vedere che ha voglia di rimanere, di ribaltare la situazione facendo quello che fino ad ora, purtroppo, non ha fatto. Io lo vedo spento nelle movenze, nella faccia, nello sguardo, sembra quasi si sia rassegnato e non è una bella cosa”.
Hai raccontato tante volte dei problemi con Mazzone ma prima di andare via lo hai aiutato parecchio.
“Ecco, come ti dicevo in poche partite può cambiare tutto. Io ero fuori rosa poi a un certo punto Sensi ci chiama entrambi e ci dice: “Non esiste Rizzitelli, non esiste Mazzone, c’è solo la Roma, poi a fine anno ognuno per la sua strada”. Non aspettavo altro e in quattro, cinque partite ho fatto tre o quattro gol e abbiamo sfiorato la qualificazione alla coppa Uefa. Ecco cosa può succedere improvvisamente non solo in un campionato, ma nella vita personale. Poi Mazzone è rimasto e io sono andato via, anche se in realtà abbiamo litigato solo una volta. Lui era sicuro che noi “senatori” decidessimo tutto, facessimo la formazione. Poteva entrare nello spogliatoio, guardare con i suoi occhi e poi giudicare; invece, ha scelto di andare a priori dietro al sentito dire e sai bene che a Roma ne girano di tutti i tipi”
Vai al Torino e diventi l’uomo derby.
“Avessi segnato a Roma tutti quei gol ero al posto del Papa, però il Toro mi ha dato tanto. Mia moglie mi diceva che ero un pazzo, che non potevo lasciare la Roma per come mi era entrata dentro, ma non c’erano le condizioni per rimanere. Sapevo che non avrei provato le stesse emozioni, ma quando ho capito con quale passione i tifosi seguissero la squadra, ho ritrovato voglia e stimoli ed è successo quello che è successo: due doppiette e due derby vinti tra i quali l’ultimo fuori casa da 35 anni. Ci sono amici che tutte le volte che mi chiamano, mi raccontano che fanno vedere ai figli i miei gol in vhs. Torino è granata, la Juve è quello che sta attorno alla città o nel resto d’Italia”.
Tu sei passato alla storia anche per i pali con l’Inter nel ritorno della finale di coppa Uefa e in Russia con la Nazionale.
“Guarda, con la Nazionale ci saremmo qualificati per gli Europei, ma con la Roma se quel maledetto pallone fosse entrato avremmo conquistato la coppa, ne sono certo. Quell’anno in Europa avevamo dettato legge dappertutto, eravamo veramente forti, forti, forti e in più c’era la rabbia per l’arbitraggio subìto all’andata a Milano. Trapattoni fece 90 minuti in difesa e purtroppo non siamo riusciti a rimontare. Avrei tanto voluto dedicare quella coppa a Dino Viola che mi aveva voluto a tutti i costi strappandomi alla Juve, sono ricordi indelebili”.
E poi le coppe erano casa tua.
“È vero, in coppa mi sono sempre esaltato, ho fatto tanti gol e sempre importanti. Allora non erano un campionato dove puoi sbagliare e ti puoi riprendere, era dentro o fuori e in coppa Uefa, nove volte su dieci, incontravi squadre che avrebbero vinto i loro campionati. Devo dire che Ottavio Bianchi è stato importante, niente tacco e punta, tunnel, belle giocate e poi te ne torni a casa. Lui aveva vinto a Napoli, sapeva come funzionava e ci ha inculcato la mentalità: concretezza e determinazione. E se in Uefa purtroppo è andata male, la coppa Italia invece l’abbiamo vinta”.
Quando sei tornato a Cesena hai giocato con Agostino Di Bartolomei, c’è qualcosa che vuoi ricordare di lui?
“Vedi, io sono nato a Margherita di Savoia, poi a 14 anni mi sono trasferito a Cesena dove all’inizio vivevo in una casa con altri ragazzini del settore giovanile. Quando ho cominciato a giocare tra Primavera e prima squadra, sono andato ad abitare con due romani, Nappi e Bonaiuti. Era l’anno della finale con il Liverpool e dentro casa si parlava solo della Roma, di più: si urlava per la Roma anche di notte. La sera della finale di Coppa dei Campioni c’erano bandiere sulle sedie, sul tavolo, sciarpe, insomma Roma, Roma, Roma e basta. Poi cosa è successo? Vinco il campionato di Serie B, andiamo in Serie A e il primo giocatore, il mio primo capitano in Serie A, chi è? Agostino Di Bartolomei. Pensa che Nippo Nappi mi diceva sempre che il suo sogno era esordire con la Roma e fare un gol sotto la curva sud. Beh, quando è successo a me ci ho ripensato e mi sono venuti i brividi, lui lo aveva sognato e io ero al suo posto. Sembra la trama di un film, giocare con Agostino Di Bartolomei è stato come chiudere un cerchio”.
Mi dai il podio dei tuoi tre compagni più forti?
“Al primo posto Totti. Ora, io l’ho visto ragazzino esordire al mio posto ma Francesco mi dava già l’impressione di essere un campione perché oltre alle qualità tecniche, aveva una personalità incredibile. A quell’epoca ai primavera che il giovedì facevano la partitella con la prima squadra correndo di qua e di là, i vari Oddi, Nela, Manfredonia, Collovati, davano delle randellate incredibili, uno ringhiava e l’altro li alzava. Li minacciavano e l’allenatore non diceva nulla perché c’era il nonnismo, come tra i militari. Beh, l’unico che se ne fregava, che faceva dribbling, giocate, tunnel su tunnel, era Totti. Più gli menavano, più continuava senza alcuna paura. Come dicono i napoletani aveva la cazzimma ed è arrivato dove sappiamo. Al secondo posto metto Rudi Voeller che è stato campione in tutti i sensi, non solo del mondo. Io che ero ragazzo correvo per lui, ma quando ero stanco con i crampi anche al cervello, lui mi guardava e mi diceva: “Ruggiero, adesso corro io per te, vai avanti”. Capisci? Invece che rivolgersi all’allenatore per dirgli di sostituirmi, mi faceva stare quei 5-6 minuti davanti per respirare. Un grandissimo, uno di quei giocatori che ti esaltano veramente. E poi metto il nostro Bruno Conti, ragazzi che fenomeno. Io che ero uscito di casa con le bandiere dell’Italia sull’auto scoperta dopo la finale di Spagna ’82, me lo sono trovato nello spogliatoio. Ti giuro, all’inizio gli davo del lei perché oh, Bruno Conti il campione del mondo è mio compagno di squadra. È una delle cose bellissime che mi porto dentro”.
Senti Ruggiero, che giocatore serve assolutamente alla Roma l’anno prossimo?
“Un bomber, perché da Dovbyk mi aspettavo molto più. All’inizio non aveva fatto neanche tanto male, ma ora mi sembra un pesce fuori dall’acqua: non partecipa, non si fa vedere, non dà profondità, non è cattivo. Shomurodov che ha molte meno qualità, lotta, combatte, quando entra ci mette l’anima, cose che non vedo in Dovbyk. Mi dispiace, ma lì davanti ci serve qualcuno che sia un leader e faccia venti gol, perché puoi giocare bene al calcio quanto ti pare, però se non la butti dentro non vai da nessuna parte”.
Al nuovo allenatore ci hai pensato?
“Veramente no, ma intanto diciamo grazie a Ranieri perché si è preso questa patata bollente e ne sta venendo fuori alla grande, guarda che io ero veramente preoccupato per come stavano andando le cose. Poi se devo dire un nome tra quelli che sento circolare, dico Ancelotti che è un grande allenatore e conosce Roma. Ma attenzione, per fare una grande squadra servono grandi giocatori, altrimenti anche Ancelotti dopo tre mesi verrebbe contestato”.