Ravaglia: “Ripenso a Roma e ho ancora la pelle d’oca, ci siamo regalati un sogno. Io porto i bolognesi in campo con me, è quello l’orgoglio più grande” | OneFootball

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·22 maggio 2025

Ravaglia: “Ripenso a Roma e ho ancora la pelle d’oca, ci siamo regalati un sogno. Io porto i bolognesi in campo con me, è quello l’orgoglio più grande”

Immagine dell'articolo:Ravaglia: “Ripenso a Roma e ho ancora la pelle d’oca, ci siamo regalati un sogno. Io porto i bolognesi in campo con me, è quello l’orgoglio più grande”

Forse nemmeno da cinno, varcando per la prima volta i cancelli di Casteldebole, Federico Ravaglia aveva osato disegnare con la mente un sogno del genere. Eppure mercoledì 14 maggio 2025 allo stadio Olimpico di Roma, lui e suoi compagni hanno riportato un trofeo nella bacheca del Bologna dopo 51 lunghi anni. L’ultimo bolognese doc, cresciuto nel settore giovanile rossoblù, a riuscirci, era stato nel 1974 un certo Giacomo Bulgarelli… Da una Coppa Italia all’altra, da un passato glorioso ad un presente finalmente esaltante e vincente, e per Ravaglia una carriera che comincia a farsi molto interessante. Sembrano lontanissimi quei 5 gol subiti all’esordio in Serie A, per non parlare della dura gavetta tra Südtirol, Gubbio, Frosinone e Reggina: oggi il classe 1999 è un portiere che in Serie A ci sta alla grande e che aspira, come giusto che sia, a ritagliarsi uno spazio sempre maggiore. Di tutto questo e di molto altro abbiamo avuto il piacere di parlarne proprio con ‘Fede’, ragazzo tanto imponente nel fisico quanto delicato nei modi, dentro quel centro tecnico che l’ha visto crescere e che per lui è davvero una seconda casa.

Federico, sono i giorni più belli della tua vita? «Sicuramente li metto in cima alla classifica, tra le emozioni più belle e forti che abbia mai provato: alzare la Coppa Italia col Bologna da bolognese, festeggiare con la famiglia e gli amici e vivere l’euforia della città è stato ed è qualcosa di magico, stupendo. La piazza aspettava da cinquantun anni questo momento e tutti insieme, società, squadra e tifosi, siamo riusciti a regalarci un sogno».


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Tra un festa e l’altra vi siete resi pienamente conto di quello che avete fatto? «Secondo me ancora no, ci vorrà un po’ (ride, ndr). Lì per lì ho visto ragazzi piangere, esplodere di gioia, buttare fuori tutto ciò che avevano dentro… Ci sono ancora tutte queste straordinarie emozioni da metabolizzare, pian piano capiremo meglio la portata del traguardo raggiunto».

Come ci si sente ad essere il primo bolognese che trionfa col BFC dopo Bulgarelli? «Ha un significato speciale, fatico a descriverlo con le parole. In un momento del genere viene da guardarsi indietro e ripensare al percorso fatto: il mio arrivo qui a dodici anni, la trafila nel settore giovanile, le esperienze in prestito e i ritorni, lo spazio sempre maggiore che sono riuscito a ritagliarmi in questo gruppo fantastico e anche sul campo, fino alla Champions League. Spesso la gente mi dice che io sto realizzando il sogno di tutti i tifosi del Bologna: ecco, quella è la cosa che più di ogni altra mi riempie d’orgoglio, è una spinta costante che mi fa tenere costantemente accesa la fiamma».

Qual è stato il messaggio più bello che hai ricevuto dopo la vittoria? «Al di là di tutti i complimenti ricevuti da familiari, amici ed ex compagni, mi piace citare questo episodio capitato ieri a me e ad altri ragazzi della squadra mentre eravamo a cena in centro. Un tifoso si è avvicinato a noi e ci ha detto: “Io vado allo stadio da quando ho dieci anni e mi avete regalato l’emozione più grande della mia vita, sono sicuro che me la porterò fin dentro alla tomba”. Siamo rimasti un attimo in silenzio e poi l’abbiamo ringraziato per quelle parole così forti, profonde e toccanti: si capiva che arrivavano dal cuore».

Oltre ai meriti di squadra e società, quanto c’è di Italiano dentro questo storico successo? «Tanto, tantissimo. Il mister è arrivato qui raccogliendo la pesante eredità di Thiago, la Champions League, e senza alcun timore ha iniziato subito a diffondere il suo credo, le sue idee: ci abbiamo messo un po’ a metabolizzare il cambio, ma una volta entrati nei nuovi meccanismi abbiamo acquisito una precisa identità, seguendolo in tutto e per tutto e raggiungendo i risultati che avete visto. Il mister è stato davvero bravo ad infondere nel gruppo la sua passione e la sua voglia di vincere, lui vive per il calcio e questa fame noi la riversiamo sul campo: sappiamo sempre cosa fare e come farlo, con la giusta mentalità».

La recente flessione in campionato è spiegabile con le tante energie psicofisiche riversate sulla Coppa Italia? «Nonostante la notevole crescita di questi ultimi anni, non eravamo ancora una squadra abituata a giocarsi una finale parallelamente al campionato, quindi forse a livello inconscio qualche pensiero è andato più verso la Coppa Italia. Ma non mi sento nemmeno di chiamarla ‘flessione’, sì abbiamo perso qualche punto ma siamo comunque lì con tutte le big, ci siamo riconfermati come una grande squadra che può lottare per l’Europa. E in tal senso anche sabato faremo del nostro meglio per vincere, migliorare la nostra classifica e chiudere al meglio la stagione davanti pubblico del Dall’Ara».

Come valuti la tua stagione, con 14 gare coronate dall’esordio in Champions League? «Sono contentissimo perché ho potuto dare continuità a quanto di buono fatto l’anno scorso, giocando ancora più partite. E speriamo che sabato diventino quindici (sorride, ndr)… In particolare sono felice di aver dato il mio contributo alla costruzione di traguardi importanti come la vittoria della Coppa Italia, la riconferma in Europa e ci metto pure un’ottima Champions, perché siamo sempre usciti dal campo a testa alta e credo meritassimo qualche punto in più. Dunque la valuto una stagione super positiva, sia a livello personale che di squadra».

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Questo ruolo di vice che però partecipa molto ti piace o inizia a starti un po’ stretto? «Dopo le due esperienze in prestito a Frosinone e Reggio Calabria ero tornato qui con l’idea di lavorare sodo per rimanere e ritagliarmi sempre più spazio. Ci sono riuscito e per essere un secondo portiere ho avuto molto spazio, non mi posso lamentare. Poi ovviamente la mia speranza è di avere ancora più possibilità in futuro, magari già dall’anno prossimo».

Il tuo è stato un percorso particolare, almeno visto da fuori: bene in C, qualche difficoltà in B, poi in A con grande disinvoltura… «La parentesi di Frosinone in realtà la ritengo positiva: la squadra è rimasta a lungo in corsa per i playoff, mentre io ho giocato titolare almeno fin quando non mi sono rotto il naso e poi il mister ha fatto altre scelte. Alla Reggina invece le cose non sono andate bene fin dall’inizio, anche per i noti problemi della società, e già a gennaio ho preferito fare rientro a Bologna. Riguardo al salto di categoria posso dire che ho lavorato tanto su me stesso per farmi trovare pronto nelle occasioni di alto livello che poi mi sono capitate, e sono davvero soddisfatto».

Dai preparatori di Motta a quelli di Italiano le metodologie di lavoro per voi portieri sono cambiate molto? «Le differenze ci sono perché ogni staff porta il suo modo di lavorare, le sue idee e il suo modo di trasmetterle ai calciatori, così da metterli in campo nelle migliori condizioni possibili. Devo dire che sia nelle scorse stagioni con Alfred Dossou-Yovo e Iago Lozano, sia in questa con Vincenzo Sicignano e Antonio Rosati, la cosa che mi ha fatto più piacere è il rapporto umano venutosi a creare, la base su cui poi andare a costruire i successi professionali e il segreto per allenarsi al meglio con l’intero gruppo portieri, dai tre della Prima Squadra ai Primavera che ogni tanto vengono aggregati».

Che rapporto hai con Skorupski e quali sono le sue abilità che ammiri di più? «Con Lukasz c’è un rapporto di grande rispetto reciproco: per tutto l’anno ci spingiamo l’un l’altro e cerchiamo sempre di alzare l’asticella, anche con Bagnolini, dando costantemente il massimo. Questo è il nostro modo di lavorare e credo che i risultati si siano visti perché l’intero reparto si è sempre comportato bene. Di lui ammiro in particolare il modo di stare in porta, perché fra i pali è veramente fortissimo. E in allenamento provo a ‘rubargli’ qualcosa, come si fa coi più bravi (sorride, ndr)».

A 25 anni può essere fatto un primo bilancio della tua carriera: in cosa ti senti cresciuto e in cosa pensi di dover ancora migliorare? «Se ripenso alla stagione 2020/21, quella del mio esordio con Sinisa, ciò che mi rende più contento è lo step compiuto in termini di atteggiamento, di sicurezza nello stare in campo e nel sentirmi a mio agio in qualsiasi circostanza: motivato e carico ma nel contempo freddo e concentrato, consapevole di poter aiutare la squadra. Per il resto spero di avere davanti a me una carriera lunghissima, magari fino a 40 anni (ride, ndr), e il mio credo sta nel non accontentarsi mai e nel provare a migliorare ogni singolo aspetto: è il segreto per presentarsi tutti i giorni agli allenamenti con l’obiettivo di essere un portiere migliore».

Parlando invece di te come persona, quali aggettivi useresti per descriverti? «Un ragazzo semplice, che è rimasto lo stesso di quando non era un giocatore del BFC, che ha mantenuto un rapporto fantastico con amici e famiglia, a cominciare da mio fratello gemello Alessandro: faccio tutto questo anche per loro, che sono i primi a supportarmi, e per loro cerco di esserci sempre: vado orgoglioso di questo bellissimo legame».

Raccontaci anche un po’ di Federico fuori dal campo… «La mia maglietta (con sopra Michael Jordan, ndr) fa capire che oltre al calcio amo il basket, del resto a Bologna non puoi non essere contagiato dal mondo della pallacanestro. A tal proposito ci tengo a ricordare mio zio ‘Tatto’ (Andrea Tattini, ndr), venuto a mancare pochi mesi fa, un’istituzione dei Giardini Margherita che ha trasmesso ancor di più questa passione a me e mio fratello. Più in generale, nel tempo libero mi piace rilassarmi, godermi la famiglia e girare per la mia città. Specialmente in momenti del genere, quando si viene ricoperti d’affetto».

Il tuo inseparabile numero 34 ha un significato particolare? «Lo presi subito dopo l’arrivo in Prima Squadra per omaggiare mio nonno Francesco, classe 1934, tifosissimo del Bologna: la fede rossoblù dei Ravaglia era partita da lui e io, una volta raggiunto quell’emozionante traguardo, mi sono sentito di dedicarglielo. Da allora lo indosso con tanto affetto, è una sorta di simbolo della nostra famiglia».

Ripensando alla magnifica coreografia di Roma e a tutto il sostegno e l’amore che vi hanno sempre dato, cosa ti senti di dire ai tifosi rossoblù? «Che sono pazzeschi. Di solito prima delle partite esco solo al momento del riscaldamento, quasi mai prima, ma a Roma non ho potuto farne a meno perché il rumore della nostra gente si sentiva fin dentro lo spogliatoio e non ho resistito. C’è stato un momento in cui io e i miei compagni ci siamo fermati in mezzo al campo, attoniti, a guardare la curva già piena: c’era tutta Bologna, sul serio. Poi la coreografia, con quelle trentamila bandierine rossoblù che sventolavano e l’omaggio agli eroi del ’64 è stata da brividi: sarà un ricordo eterno, quando ne parlo ho ancora la pelle d’oca».

Il prossimo passo, tutti insieme, lo scudetto o l’Europa League? «Iniziamo dall’Europa League e poi vediamo. Per l’ottavo scudetto c’è tempo (sorride, ndr)…».

Simone Minghinelli

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Foto copertina: Alessandro Sabattini/Getty Images (via OneFootball)

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