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Giovanni Armanini·18 febbraio 2019
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Giovanni Armanini·18 febbraio 2019
Per capire i fallimenti in Serie C bisogna considerare 2 aspetti economici dei club.
Il primo: la piramide del calcio italiano è troppo corta, questo significa che il titolo sportivo non ha valore.
Significa che è meglio fallire e ripartire dalla D che salvare un club in Serie B. Gli unici casi – fateci caso – di club non fatti fallire sono quelli in cui vi era una esposizione debitoria eccessiva verso le banche, le quali non accettano di perdere i soldi ma preferiscono un debitore vivo che un insolvente morto.
Il secondo: l’attuale mercato dei giocatori, a partire dalle categorie dilettantistiche, ha annullato il valore dei cartellini. In più le regole che premiano l’utilizzo dei giovani creano un circolo vizioso fatto di prestiti dai grandi club.
Significa che oggi le società non hanno struttura patrimoniale (la categoria non ha valore e nemmeno il parco giocatori) e quindi i loro bilanci sono un conto economico di puro costo.
Il ciclo è abbastanza chiaro:
Con queste premesse si può tranquillamente fare calcio in piazze inesistenti da 100 persone allo stadio (anzi, meglio farlo li, non c’è la piazza esigente a pressare per i risultati), tanto la retorica giornalistica esalterà sempre le cenerentole (come si trattasse di squadre fatte solo da autoctoni… sic!), mentre i bacini d’utenza (ovvero la gente, il tifo, la passione) rimarranno sempre un corollario.
Le soluzioni a questa situazione sono principalmente tre:
Al contrario in Italia si preferisce conservare lo status delle categorie che garantiscono da una parte posti politici, dall’altra un bacino di scarico dei grandi club che possono cedere i propri giovani in eccesso laddove questi devono giocare obbligatoriamente.
Su questa base il caso Pro Piacenza sarà solo l’ennesimo di una serie infinita, perchè nessuno, nemmeno i tifosi che guardano al particolare della propria societá e non al disegno d’insieme, ha interesse a cambiare.
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