Pavoletti: «Cagliari mi ha adottato, ora sono uno di loro. Carriera al tramonto? Dico questo…» | OneFootball

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·13 febbraio 2025

Pavoletti: «Cagliari mi ha adottato, ora sono uno di loro. Carriera al tramonto? Dico questo…»

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Pavoletti, l’attaccante e capitano del Cagliari si è concesso in una lunga intervista ai microfoni di Radio Tv Serie A: le parole

Il Cagliari si gode i tre punti ottenuti nella vittoria contro il Parma di Fabio Pecchia, ma guarda già alla prossima partita. Non sarà una sfida semplice: i rossoblù volano a Bergamo per giocare contro l’Atalanta di Gian Piero Gasperini. Intanto ha parlato il capitano del Cagliari Leonardo Pavoletti ai microfoni di Radio Serie A. Ecco le dichiarazioni rilasciate dal numero 30 rossoblù, riprese da CagliariNews24, che ha toccato diversi temi.

GIOCATORE – «Mi sono accorto che negli anni bisogna rendere orgogliosi i propri compagni. In questo modo ci saranno dei benefici. Un giocatore che gioca da solo non mi piace, credo nel gruppo anche se non sono tutto rosa e fiori: concentrazione, voglia di allenarsi… sarò sempre molto ruvido»


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ADOTTATO – «Anche se il primo anno non è stato perfetto, ci ho messo un po’ ad entrare nel cuore dei tifosi. Anche quando non gioco sono sempre riuscito a leggermi con l’ambiente della città. Cagliari mi ha studiato e accettato. Poi è nato il vero amore e mi hanno donato tutto loro stessi. Non posso fare altrimenti. Ogni giorno un clima perfetto, bella città, le persone ti rispettano: è un bel modo di vivere e lo pensano tanti miei compagni, anche quelli che sono andati via. Cagliari è unica, ne parlano poco in Italia ma Cagliari sta assimilando il suo vero valore. Mi sento adottato, mi sento uno di loro, penso come loro, vivo la città come loro, ho una parte forte di amici toscani ma sto diventando sempre più sardo e questa cosa mi piace. Ogni problema si affronta insieme, ci si guarda, ci parla. Per me è sempre stato ciò che cercavo e qui l’ho trovato»

GIGI RIVA – «Ricordiamo il grande Gigi che da poco abbiamo celebrato la messa in suo ricordo. Essere paragonato a Gigi fa sempre piacere, ma dobbiamo essere bravi a dosare le parole. Siamo entrambi attaccanti ma non di livello uguale. Ci accomuna l’amore verso Cagliari, i principi che abbiamo riscontrato in questa città, vivere il meno possibile con l’ansia e la frenesia delle grandi città.  A me e a Gigi questa cosa ci fa impazzire. Ci piace il vivere quotidiano dal punto di vista della persona: andare al bar, chiacchierare, semplicità, non lo puoi comprare con il denaro»

NICOLA – «Mister Ranieri è stato fondamentale, senza di lui non saremmo tornati dove siamo oggi. Ci ha insegnato tanto e il passaggio non era semplice. Poche persone potevano prendere il suo scettro ma anche per la credibilità con giocatori e tifoseria. Nicola ci sta riuscendo: è una persona di valori, ti guarda in faccia, dice cosa pensa, a volte può anche sbagliare ma ci ha fatto respirare cose positive. Non abbiamo sentito lo stacco da mister Ranieri: Nicola giorno dopo giorno lavora molto bene, ci sono stati vari fattori che ci hanno fatto dire “siamo in buone mani, seguiamolo al cento per cento”»

CONFRONTI – «Parlo molto col mister. Non è mai capitato di parlare della mia situazione calcistica. Lui sta dimostrando di tenerci, ha un occhio di riguardo con me. Ha molta attenzione nel minutaggio che mi dà in campo: non ne abbiamo mai discusso. Parliamo molto della squadra, cerca di capire cosa provo io da calciatore nello spogliatoio e cosa pensano i miei compagni per poi trovare una soluzione. Il mister si mette a disposizione della squadra, parla ascolta e prova ad interpretare il messaggio che gli faccio arrivare io o gli altri giocatori»

FINE CARRIERA – «La mia carriera si sta esaurendo. Cerco di prendere quello che mi viene offerto. C’è un momento in cui puoi mangiare il mondo, ti confermi, ti affermi, il campo conta più di tante altre cose e ti focalizzi sul rettangolo verde. Crescendo ti accorgi che ci sono altri valori che servono al club. Non potendo giocare tante partite tra infortuni e scelte, perché ci sono giocatori più bravi, cerco comunque di ritagliarmi uno spazio. L’ho fatto anche al Napoli. Bene o male, nonostante non giocassi mai, mi ero ritagliato uno spazio nello spogliatoio. Ero un ragazzo che portava leggerezza e questa cosa l’apprezzarono molto. Tutti hanno respirato questa mia capacità di essere empatico nonostante non giocassi molto. Ora sono un collante fra squadra e società, fra squadra e ister, sono una sorta di fratello maggiore: a volte affettuoso e a volte severo. Sto costruendo una nuova professionalità che fino a qualche anno fa non pensavo di avere. Mi sono trovato nel corso di questi anni, tra retrocessione, giocatori andati via… ho dovuto prendere la situazione in mano: il vero uomo, la vera personalità si vede nel momento difficile. Anche se volte posso anche sbagliare»

ADDIO AL CAGLIARI – «C’è stata una piccola parentesi. Dopo il secondo infortunio al crociato ero fuori: dopo un anno fermo avevo bisogno di dimostrare che ero tornato. Per spazi e gerarchie, non riuscivo a giocare. Iniziai a pensare in una finestra di mercato di gennaio di 3-4 anni fa di cambiare squadra ma solo per dimostrare il mio valore agli altri e a me stesso. Poi le cose sono cambiate perché arrivò un allenatore che mi ha messo al centro del progetto: mi ha fatto piacere essere rimasto qua»

GOL PESANTI – «Non si contano i gol, ma si pesano? Ti dico la verità: è difficile da spiegare e far capire questa cosa. È bellissimo ma il giorno dopo hai nuovi obiettivi. Tante volte, non mi sono mai sentito Pavoletti-calciatore: è stato sia un bene che un male perché potevo pretendere qualcosa in più. Ma tutto mi ha portato a tante esperienze, tanti amici: non sono mai quello che dipingono. Per me è un gioco: non sento mia l’etichetta dell’uomo dai gol pesanti. Molte cose mi sono andate bene e sono fortunato e grato. Ho fatto il mio lavoro per arrivare nella posizione giusta e segnare, di questo ne sono fiero. L’importanza del gol, di quello che ha suscitato il gol di Bari, non me la sono sentita sulle mie spalle. È merito della squadra. A fine partita ero arrabbiato perché me l’ero sognata fino all’ultimo: sono rimasto qui tutto l’anno, l’ultima partita decisiva gioco cinque minuti. Rischiavo di non farcela. Doveva girare tutto bene, è difficile che possa ricapitare una cosa così. Non mi sono mai goduto quello che ho fatto nel calcio e non l’ho mai sentito al 100%. Siamo fatti così. A posteriori cerco di analizzare le cose positive, quelle negative, so’ che lavoro devo fare per essere pronto a livello mentale e fisico. Il gol è importante»

LAVORO – «Lavoro mentalmente ma c’è anche l’abitudine: la partita per me sono 15/20 minuti che equivalgono ai 90 di altri calciatori. I palloni sono sempre meno. Ogni giocata che sbagli potrebbe essere l’ultima. Devi essere sveglio, capire cosa devi e puoi dare alla squadra. A volte ci sono riuscito, a volte no: non voglio rovinare la partita alla squadra. Io ragiono prima per gli altri e poi per me: negli anni ho capito che la cosa più importante è rendere orgoglioso il proprio compagno. Siamo abituati a giocatori con ego smisurato e non ho mai avuto quelle qualità, quella carriera. Non ce la farei mai. Un giocatore che gioca da solo… non mi piace. Credo nel gruppo anche se non sono tutto rosa e fiori: concentrazione, voglia di allenarsi… sarò sempre molto ruvido. Uno può avere la giornata storta, magari sei l’MVP, ma penso che se do’ tutto, picchio, faccio contento il mio compagno… questo è il premio più bello che posso avere nello sport»

RIMPIANTI – «Non ne ho. Non sono mai andato a lamentarmi. Ho lavorato. Poi a fine anno magari andavo via. A Napoli non ero pronto per il modo di giocare e il ritmo: forse dovevo tenere botta piuttosto che andare via dopo sei mesi, non siamo robot e mi dovevo ambientare. Siamo umani anche noi dopotutto, però avevo visto che mi sarebbe piaciuto cambiare aria, nonostante avessi trovato uno degli spogliatoi più belli e simpatici. Per fortuna spuntò l’idea Cagliari e mi allettava molto l’esperienza in Sardegna. Per come vedo io la vita m’ispirava»

CRISTIANO RONALDO – «Il paragone con Ronaldo nella stagione 18/19? Mi sono messo a ridere anche se pensavo “cavolo, chi l’avrebbe mai detto?”. Non ho mai dato nulla di scontato tuttavia: m’impongo in tutti i modi in campo. Sono sempre stato corretto anche se ho avuto un’espulsione, a volte si può sbagliare. Quando c’è Cristiano Ronaldo dall’altra parte è normale che voglio essere meglio di lui. In campo non guardi in faccia nessuno e ti batti. A fine partite ritorni la persona che sei ogni giorno, non mi riconoscevo nel Pavoletti giocatore. So’ che sono io ma, quando finisce, il calcio non è primario nella mia testa. La cosa più importante è la persona che sei. Ci sono stati prima giocatori più bravi e ce ne saranno in futuro. Se non posso farmi ricordare in campo preferisco farmi ricordare per la persona che sono fuori, ma non nel senso che costruisco un personaggio»

APPARENZE – «Tante volte i giocatori sono introversi, sono chiusi nel loro personaggio perché magari è difficile esprimersi e fari capire. Vediamo un giocatore con tatuaggi e orecchini che magari è il più introverso nella sala e non vuole fare il fenomeno, come potrebbe pensarsi. Io riesco ad entrare in confidenza subito con le persone, essere un po’ più empatico. È una mia qualità»

ATTACCANTI ODIERNI – «La direzione del calcio è quella di un attaccante sempre più duttile: mi piacevano i gol alla Del Piero o alla Pavoletti. Secondo me ora il gioco è così veloce, tecnico, tecnico in velocità, meno colpi bellissimi, tutto più difficile, meno estetica e più funzionalità. È un altro calcio che sta cambiando: vogliamo tutto più veloce, i miei figli per esempio preferiscono vedere gli highlights e lo spettatore vuole vedere più azioni e una partita frizzante. A parte la mia generazione con gli attaccanti in area, ora vedo attaccanti bravissimi che non eccellono in tante cose. Ma lo vedremo: non ho quella sensibilità di come andrà il calcio nel prosieguo»

GIOVANI – «Non si parla molto, ma è bello perché ho un bel rapporto. Nello staff del mister c’è un ragazzo molto bravo nell’insegnare la tecnica. Ci sono piccole cose che nel lavoro quotidiano si fisserà nella mente. Magari ci sono giocatori che mi ringraziano per alcuni miei consigli… sono gioie, prendo quello che mi viene dato nonostante il campo mi dà di meno. È una cosa importante sentire un giovane che dice “Pavo, grazie per il consiglio”»

MOMENTI D’ORO – «Mi prendo sempre qualcosa. Chiudendo gli occhi mi vengono in mente tanti gol importanti. L’emozione più grande è stato quando entro nello spgoliatoio del Sassuolo e vedo la maglia con numero scelto da me e il mio nome. Arrivati in Serie B potevi scegliere nome e numero e quello era il calcio che contava. Avevo l’8. È un’emozione che mi ha fatto tornare bambino. Poi magari il primo gol a una grande contro l’Inter con la maglia del Genoa. “Ho fatto gol all’Inter” pensavo. La prima emozione pura resta la maglia con nome e numero scelti da me. Venivo da anni in Lega Pro, arrivo all’ultimo alla Juve Stabia e poi al Casale Monferrato. Era un periodo difficile dove ho avuto paura perché segnavo poco, Mi promisi che qualsiasi mi prenderà io avrei fatto il calciatore al 110%. Vado quindi al Lanciano, con un gruppo che provava ad andare in B da anni. Il presupposto era di salvarsi non all’ultima giornata ma alla penultima. Non sapevo nemmeno dove fosse Lanciano, ma lì ho capito cosa ci voleva per essere calciatore.»

CONSACRAZIONE – «La mia fortuna è che ho vinto due campionati: dalla C alla B e dalla B alla A. Io però potevo rischiare di impantanarmi, ma mi sono ritrovato nelle realtà giuste. Varese? Io ero in uscita dal Sassuolo. Potevo restare lì col contratto oppure andare a giocare. Ho pensato “se vado, devo dimostrare di essere un attaccante di 20 gol”. Per tornare in Serie A mi ero prefissato dai 20 gol in su. Siamo finiti ai playout, un anno difficile anche se la squadra aveva molto valore. Nelle difficoltà, se sei concentrato, ne esci meglio. Il presidente Preziosi mi ha visto a Varese e lo stesso Squinzi mi aveva detto che gli “facevano la testa” per ciò che stavo facendo a Varese»

GASPERINI – «Gli devo tanto perché mi ha fatto credere che ero un giocatore da Serie A e io non lo credevo, non lo sentivo al 100%. All’inizio non mi considera minimamente perché non mi aveva scelto lui. Un giorno mi allenavo e davo tutto: la mia partita era l’allenamento tutti i giorni. A fine allenamento mi dice “Pavo ci siamo”. Non lo conoscevo, si sapeva che era un allenatore bravo: si gioca in infrasettimanale con il Parma, parte Borriello (giocava lui e poi entrava Niang solitamente o il contrario). Dopo dieci minuti Borriello si fa male e Gasperini dice “Pavo entra”. Burdisso mi aveva detto “mi raccomando allacciati i parastinchi” perché Gasperini odia i giocatori che non sono pronti ad entrare. Il giorno non mi ero legato i parastinchi. Però quella partita è andata bene e Gasperini inizia a darmi più spazio. Nelle partite decisive per andare in Europa League c’ero io, facevo gol, giocavo bene, si è arrivati sopra la Sampdoria che ci scavalca perché non aveva la licenza UEFA: Quello forse è un rammarico, non aver fatto l’Europa con il Genoa. Mi è sempre piaciuta l’idea di fare la propria squadra, come in NBA. Ora fanno queste squadre di fenomeni, meno romantico. Con il Genoa ci eravamo guadagnati sul campo l’Europa. Peccato anche non aver fatto gol a Napoli sicuramente»

NAPOLI – «Mi ha colpito molto Hamsik. C’erano tanti giocatori fortissimi: Hamsik faceva tutto, mi piaceva molto. In ogni fase del gioco lo trovavi a fare legna dietro, riaprire il gioco e fare il gol. Io l’ho trovato quasi alla fine, ma era comunque di un’altra categoria»

BANDIERA – «Sono qui da 8 anni, la prospettiva è quella. Non voglio trascinarmi troppo. Accetto di stare in panchina, ma non lo accetto completamente. Vorrei comunque fare il calciatore perché mi sento un calciatore. Sento ancora il fuoco dentro che non mi fa andare a letto tranquillo se non do’ tutto quello che voglio dare. Una motivazione? Vincere il premio di MVP a fine partita. Lo voglio vincere almeno una volta. Se non incido non mi piace, devo stare sul pezzo. La testa è sempre lì: fame e voglia di giocare. Deve essere però tutto naturale. Voglio essere utile e prendermi delle gioie personali perché vuol dire che “sono nella squadra”»

SALVEZZA – «Da raggiungere il prima possibile. Ancora viviamo settimana dopo settimana, giorno per giorno. Vorrei far vivere una salvezza più serena a questa città»

CAPRILE – «Veramente forte. È arrivato che sapeva già i nomi di battesimo di tutti. Sapeva come si scherzava nello spogliatoio. Si era già calato nella mentalità e nella voglia di combattere dello spogliatoio. È sul pezzo e non è un caso. Noi vediamo tutti i giorni l’attenzione e la voglia con cui è venuto qua»

FUTURO DA ALLENATORE – «La vedo difficile. Mi vedo, ad oggi, come un calciatore. L’allenatore non mi fa impazzire. Ad ora lo escluderei, potrò capire se lo voglio fare solo se avrò l’opportunità di testare e vedere cosa c’è di buono nel mio bagaglio»

FIGLI – «Mi piacerebbe se diventassero calciatori. Hanno molta più passione di me. Giorgio è molto appassionato al calcio, gli piace da morire. Non ero così fissato come lui, perché mi piaceva il tennis. Il suo idolo l’altro anno ero io, ora che capisce di calcio… tutti gli altri. Giustamente. Vuole imparare, vuole giocare a calcio, però vorrei che facciano sport in generale, è molto importante»

FUTURO – «Voglio un ruolo che mi piaccia, che lo faccia con passione, con le mie idee. Vorrei inseguire linee generali, certo. Però voglio lavorare per scelta e dedizione. Come quello che il calcio mi ha dato: una mansione che dà benefici umani e che mi consenta di andare nello stesso posto tutti i giorni ed essere felice»

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