Orfeo della Bassa – VI | OneFootball

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·30 dicembre 2024

Orfeo della Bassa – VI

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Orfeo della Bassa

VI


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Persefone, coi fiori in grembo e il melograno, sollevò il mantello bianco sull’attico profilo. Sembrava sua madre mentre seduta tra i suoi fratelli si faceva ritrarre dal fotografo girovago sotto i mori da baco da seta, sotto i ciliegi gravati di bacche vermiglie, sotto i violacei susini. «Orfeo senza spina dorsale – cominciò Persefone –, che hai fatto di Euridice che tutto ti ha dato? Le hai rubato il tempo, le hai spento le gioie, mai nulla concedesti se non semi di melograno…». «Sì Persefone, il melograno – colse al balzo Orfeo –, dopotutto è in forza del melograno che tu negli equinozi entri ed esci da questo mondo: concedimi Euridice in prestito… per un giorno soltanto». Sospirò Persefone scuotendo la chioma sotto il cinereo velo: «Tu pensi di poter rifare le cose dopo il tempo prescritto: Orfeo tu sei un imbecille. Ma poiché non hai colpa premeditata, ti concedo di portartela via ad un patto. Che quando riemergerai alla vita ti asterrai per un giorno dall’escogitare improbabili imprese, farai tesoro del momento che fugge, disdegnerai le false bellezze che ti proporranno le Erinni. Non per un giorno, ma per il resto della vita Orfeo, ti restituisco dunque Euridice. Non per merito tuo, tieni conto, ma per quanto ha interceduto Cirene.  Adesso riparti dalla consolare scomparsa, cammina verso la città degli antri e delle torri e non fermarti mai».

E Orfeo camminò lungo le valli palustri e poi sui tratturi ispidi di stoppie bruciate e poi sugli argini altissimi della bonifica. Camminò lungo i confini occidentali della provincia, passò le chiese romaniche in mezzo ai prati erbosi, i campanili solitari dei paesi, le fabbriche arcigne e i capannoni. Era ormai a Passo Segni. Non cercò un albergo. Entrò in un ferrigno casale abbandonato. Si rannicchiò su un abbaino sotto la luna dove non poté accudirlo Euridice. E così, mentre stanco alla luna officiava «o luna che abbracci il tempo tutto quanto, e di tutte le mie notturne veglie ti ricordi…», esausto e orante si addormentò. Vide passare le mura di Ferrara. Sognò la certosa monumentale. Affondò sotto l’urlo del crematorio. Finché non balenarono a svegliarlo lame di luce mattutina fendenti la bruma tra i cipressi. Allora fuoriuscì dalla sua tana, claudicò come un cane zoppo fino all’esausta foce e sulla guazza luccicante smeraldo s’incamminò verso Malalbergo calcando il Navile tombato. Cominciava la vecchia navigazione superiore, il sostegno di Malalbergo, il casermone della gabella grossa. S’infrattò lungo sentieri selvaggi nell’oasi della Rizza. «Io sono Hybris – gli sibilava la boscaglia sulla riva del canale –, attento a quello che ti dico». Fu nei pressi di Bentivoglio che si diresse senza accorgersi ad una villa che chiamavano ‘Museo della civiltà contadina’. La mole immota, quasi informe di un grande legno, lo paralizzò. Il colore della vernice di cui era dipinto il fasciame sembrava impresso da sempre nella sua mente. Mastodontica come le case, più alta del fienile stesso, la trebbiatrice lo sovrastava. Vide muoversi con scoppi rabbiosi il trattore Landini. Vide i macchinisti montare la cinghia di trasmissione incrociata, al zingiâṅ, e adattarla alla puleggia maggiore del telaio. Cominciarono a vibrare i crivelli e i scosapâja, cominciarono a girare i rotori e gli sgrigliatori, a scuotere i crivelli e soffiare i ventilatori. Era tutto silenzio invece sugli operai, che come ombre proiettate nelle stanze da pertugi nel meriggio sembravano muoversi a caso, ma così non era. Orfeo vide arrivare in bicicletta anche la Maria e la Teresina, col fazzoletto in testa e il cappello di paglia, e tutti si disposero al loro posto. Dal pagliaio cominciarono a scaricare i covoni col forcone. Si era animata la piattaforma alla sommità del castello coi braccianti che si disponevano ognuno al proprio posto come una battaglia. A terra erano pronti chi coi ramponi per afferrare le balle di paglia spinte fuori dalla pressa, chi pronto a raccogliere sul collo i sacchi di grano. Poi quando, come signore della pianura e di tutte le messi, solenne come airone, si sollevò il battitore con la testa di drago, gli stecchi di paglia che gli sfuggivano rabbiosi dalle orecchie di ferro, mostro benigno della sua infanzia, Orfeo stupefatto crollò in ginocchio, mentre il frastuono ritmico delle griglie e dei controbattitori ottundeva l’udito. Si avvicinò una famigliola in visita: «Signore, si sente male?», gli chiese la madre. «No, sto guardando la trebbiatura», rispose Orfeo. «Ma non c’è nessuna trebbiatura – rilevò distratto il padre –. Questo qui è matto, l’é mât». Poi si avvicinò la figlia più grande: «Lasciatelo stare – disse piano –, non vedete che sta pregando?». Poi si avvicinò la figlia più piccola e con le dita delle due mani gli toccò la guancia: «Nonno piange», disse. Sotto una fluttuante polvere d’oro, perdurava il pulsare del Landini e il costante tramestio dei meccanismi.

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