Zerocinquantuno
·19 dicembre 2024
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Orfeo della Bassa
II
«Cirene, Cirene, sei ancora viva! – la salutò Orfeo con voce strozzata –. Come sei bianca e com’è sdrucito il tuo grembiule! Io non posso più vivere senza Euridice. Tu che sei come mia madre, dimmi tu che cosa devo fare, e se no ammazzami col tuo bastone di bosso». «So tutto – rispose la vecchia Cirene accarezzando la testa di Orfeo con la mano consunta –. Ha volato per dirmelo il colombo Quinquern cui tu disfi il nido tutte le volte e che tuttavia ti perdona. Io non potrei, perché tante creature umane o non umane diranno che non ti meriti niente, però una cosa te la insegno e poi vada come deve andare». «Devi aspettare la notte del ventotto di giugno, giorno di San Pietro pescatore, e mettere una chiara d’uovo in una brocca. Verso mattina la chiara d’uovo avrà aperto le vele come una grande barca bianca. Tu saltaci sopra, buttati sul fontanile Riola e che il cielo ti assista». Così fece Orfeo il disperato che a tutti avrebbe ubbidito, figurarsi se no alla vecchia Cirene. Mise la chiara d’uovo nel bicchiere presso la macchia di giunchi sotto cui aveva dormito anche Stefano Pelloni con lo schioppo accanto, la notte che aspettava la Caterina, che era poi la bisnonna del suo amico Barigazzi. E sulle sponde falciate di fresco vide alzarsi le vele verso mattina: salpò sulle acque discrete del fontanile Riola che gonfio e mormorante della recente primavera, mollemente piegando le felci, sciabordando andava. Passò il fontanile e le chiuse. Piccola era diventata l’imbarcazione e grandi e limacciosi i canali, lenti a volte o impetuosi dopo le paratie imbullonate presso le chiuse di cotto di fornace. Lo guardavano dalle sponde le salamandre, i ramarri guizzavano via. Si alzavano in volo le pernici, saltavano controcorrente le carpe dalla coda squamata. «Dove vai – gracidò la regina delle rane all’imbocco del tunnel sotto il quadrifoglio delle autostrade –, dove vai Orfeo che c’infilzavi con lo spiedo e poi ci mettevi in padella? Di là c’è l’inferno e tu non lo sai».
E veleggiò la barca di diafano albume fino alla distesa delle acque stagnanti, fino ai canneti ed agli argini costellati di pioppi, fino ad una catena cui era ormeggiata una chiatta e sopra la chiatta stava ritto un vecchio arrostito dal sole che teneva a un robusto guinzaglio un cane che abbaiava cattivo. «Questa proprio non me l’aspettavo – disse il vecchio marinaio pieno di stupore –. Io sono Venanzio Caronti e questo posto è Campotto e di qui si passa solo da morti. Tu arrivi con una nave singolare assai. Chi te l’ha fornita non so. E smettila di latrare stupido Cerbero! Questo tipo è sulla nave di tuorlo d’uovo del giorno di San Pietro. Gli hanno dato la possibilità, gli hanno dato la chance, come la chiamano adesso i viventi». «Veramente non so di preciso dove sono diretto – disse Orfeo –, la nave me l’ha data Cirene stanotte. Mi ha detto: “Sei troppo triste, fai la nave così e così, veleggia verso Campotto e fatti ridare Euridice. Digli che sono Cirene, mi conoscono bene”. Cosa vuol dire, se tu sei Caronte, che di là della valle è l’inferno?». «L’inferno è dentro di te – rispose Caronte a muso duro –, in mezzo alla pianura c’è l’Ade, il posto dove stanno tutti i vostri antenati morti». «Non lo sapevo… non lo sapevo – interruppe Orfeo –. Fin da piccolo guardavo verso questa parte di mondo e mi domandavo quando avrei potuto venirci». «L’entrata dell’Ade è dappertutto. A Campotto vengono i morti della tua pianura. E l’inferno è dentro di te perché sei uno stronzo. Fortunato, però. E basta Cerbero con questo latrare della madonna! Tu Orfeo hai la possibilità grazie a Cirene di andarti a riprendere Euridice. Stai attento a non distrarti dunque. Se fai l’asino ancora una sola volta, col cazzo che te la ridanno di nuovo!». Beccheggiava la zattera ad ogni alito di vento. Improvvisi comparivano lampi lontani sul mare. E strattonato Cerbero a destra per via del rollio di sinistra e a sinistra per via di quello di destra, e percuotendolo duramente con la pertica, Venanzio Caronti trasbordò Orfeo sulla zattera e cominciò a spingerla verso le foci.