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·16 giugno 2025

Nuovo CT Italia, tocca a Gattuso: ecco le tappe più significative dell’ex Milan in Azzurro

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Nuovo CT Italia, nella giornata di ieri è arrivata l’ufficialità: tocca all’ex Milan Gattuso. Ecco le tappe più significative in Azzurro

Nonostante la memoria collettiva tenda a semplificare le carriere dei grandi campioni, cristallizzandole in un’unica immagine, per Gennaro Gattuso, ex Milan, quell’immagine è quasi sempre la stessa: il suo volto urlante di gioia, la Coppa del Mondo 2006 tra le mani, l’emblema del guerriero che ha raggiunto la cima. Eppure, come ben evidenziato in un recente approfondimento che richiama la Gazzetta dello Sport, la sua storia con la maglia azzurra è stata tutt’altro che una cavalcata trionfale. È stata, piuttosto, una lunga e sofferta cronaca di cadute dolorose, di ingiustizie subite e di delusioni cocenti, a cui “Ringhio” ha sempre dato un’unica, assordante risposta: quella del campo.

Un episodio che più di ogni altro ha forgiato il suo rapporto con l’ingiustizia è la furia contro Moreno e la Corea durante il Mondiale 2002. Negli ottavi di finale contro la Corea del Sud, l’Italia fu vittima di una serie di decisioni arbitrali sconcertanti da parte di Byron Moreno. Mentre la squadra subiva l’espulsione di Totti e un gol annullato a Tommasi, la reazione di Gattuso fu emblematica. Non si perse in proteste plateali con l’arbitro, ma trasformò la rabbia in energia pura. La sua partita fu una dimostrazione di onnipotenza fisica: correva per tre, pressava chiunque, si lanciava in tackle disperati per recuperare ogni pallone. Era come se volesse combattere l’ingiustizia del fischietto con la fatica fisica, un messaggio chiaro: «Potete provare a fregarci, ma noi non smetteremo di correre». Le sue lacrime di rabbia a fine partita furono l’immagine di un’intera nazione.


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Durante la cavalcata trionfale in Germania, nel Mondiale 2006, il rapporto simbiotico tra lui e Andrea Pirlo divenne leggenda. Non si tratta di un singolo episodio, ma di un comportamento costante che ebbe il suo apice nella semifinale contro la Germania. Ogni volta che Pirlo riceveva palla e veniva pressato dai centrocampisti tedeschi, un istante dopo appariva Gattuso a sradicare il pallone dai piedi dell’avversario o a offrirgli una linea di passaggio sicura. Marcello Lippi disse che i due si completavano. Gattuso era il guardaspalle che permetteva al genio di esprimersi senza preoccupazioni. La sua risposta alle sfide non era segnare o fare assist, ma creare le condizioni perfette perché i compagni di maggior talento potessero vincere la partita. Era sacrificio elevato a forma d’arte.

A volte, l’importanza di un giocatore si misura dalla sua assenza. Negli ottavi di finale di Euro 2008, l’Italia affrontò la Spagna, la squadra che avrebbe dominato il mondo per gli anni a venire. Gattuso, insieme a Pirlo, era squalificato per somma di ammonizioni. La sua assenza in mezzo al campo fu devastante. Mancò la sua “garra”, la sua capacità di rompere il palleggio ipnotico degli spagnoli e di dare la scossa alla squadra. L’Italia apparve timida, passiva, e alla fine perse ai rigori. Vedere Gattuso in tribuna, impotente, fu un episodio significativo perché dimostrò quanto il suo spirito combattivo fosse un elemento tattico fondamentale, non solo un accessorio.

L’ultimo assalto contro la Slovacchia, nel Mondiale 2010, è l’epilogo della sua carriera in Azzurro. L’Italia, campione in carica, sta perdendo contro la Slovacchia e rischia una clamorosa eliminazione ai gironi. La squadra è irriconoscibile, lenta, senza idee e senza anima. A inizio secondo tempo, Lippi lo getta nella mischia per un ultimo, disperato tentativo di ribaltare la situazione. Nonostante la squadra continuasse ad affondare, Gattuso giocò quel tempo come se fosse la finale del 2006. Urlava ai compagni, si lanciava in contrasti al limite, correva su ogni pallone con una foga commovente. Fu un tentativo vano, ma la sua risposta, anche di fronte a una sconfitta ormai certa, fu quella di sempre: onorare la maglia fino all’ultimo respiro. Le sue lacrime finali non erano solo di delusione, ma di un guerriero che sapeva di aver dato tutto, ancora una volta.

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