Mourinho: “Ho sbagliato a non lasciare la Roma dopo Budapest. Da allora non ho più visto una partita dei giallorossi” | OneFootball

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·31 dicembre 2024

Mourinho: “Ho sbagliato a non lasciare la Roma dopo Budapest. Da allora non ho più visto una partita dei giallorossi”

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José Mourinho a tutto tondo. Lo Special One ha rilasciato un’intervista al Corriere dello Sport. L’allenatore portoghese ha parlato dell’avventura alla Roma e di tanto altro. Di seguito le sue parole.

José, quando ti sei sentito pienamente realizzato come allenatore?


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Mai. Voglio vincere la prossima partita e sentirmi realizzato per un paio di giorni”.

Tu che parli portoghese (ovvio), italiano, spagnolo, inglese e francese e che hai indicato a tanti colleghi la strada della comunicazione intelligente, hai accettato di sfidare una delle lingue e delle realtà calcistiche più complesse d’Europa. Spiegami perché l’hai fatto.

“Perché amo il calcio e amo il mio lavoro. Non mi va di aspettare e ancora aspettare l’opportunità ideale, il posto perfetto, e ancor meno di prendermi un anno sabbatico. So che a tanti piace, o almeno così ce la raccontano. Ho detto sì a un club che mi ha voluto tanto e me l’ha dimostrato fin dal primo giorno”.

Il principe dei comunicatori risulta però dimezzato dal turco e dalla traduzione del suo inglese. A proposito, quanto ti infastidisce l’etichetta di grande comunicatore che prevale spesso su quella di grande allenatore?

“Un grande comunicatore non vince tutti i titoli più importanti del calcio”.

Si chiude un anno particolare per te: quali le cose da buttare e quali salvi?

“A livello personale scelgo il matrimonio di mia figlia, è stato un momento magnifico e sono felicissimo per loro… L’uscita dalla Roma è stata dura, però non butto nemmeno quella”.

Alleni da un quarto di secolo, vent’anni fa vincesti la prima Champions. Quanto sei cambiato da allora e dove credi di essere migliorato?

“Sono cresciuto a tutti i livelli. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, lavoro per migliorare continuamente. E non è una frase fatta”.

Dove risiede la grandezza di un allenatore?

“Nella carriera, non nel momento. La grandezza di un allenatore è nei risultati, non nella filosofia. E nell’umanità, non nell’egocentrismo. Nel coraggio, non nell’autotutela. Nell’onestà, non nel relazionale. Nella sintonia con la nuova generazione di colleghi. Nel riuscire a dormire bene di notte perché sa di essere stato sempre indipendente intellettualmente e verticale”.

La crisi del City di Guardiola ha rilanciato l’importanza dell’aspetto mentale: i giocatori sono sempre gli stessi – certo manca Rodri – ma i risultati sono spaventosamente negativi?

“Solo Pep può parlare con cognizione di causa del suo caso. Il resto sono banalità, è superficialità”.

Si parla tanto di evoluzione del calcio: secondo te dove si è realmente evoluto e dove invece è sempre uguale?

“Uguale? Chi segna un gol in più o ne subisce uno in meno, vince. Evoluto, dici? L’allenatore, che fino a poco tempo fa era una figura fondamentale nella struttura del club, è diventato progressivamente meno importante e sempre più dipendente da strutture e personaggi il più delle volte impreparati. Calcio giocato? Calcio allenato? Calcio analizzato? Ci sono stati cambiamenti su tutti i piani e a tutti i livelli”.

E altri potrebbero esserci. Cosa pensi del Var a chiamata e del tempo effettivo?

“Sono l’ultimo che può parlare di Var e tempo effettivo. Lasciamo questi argomenti ai fenomeni del calcio. Io sono solo un allenatore e voglio fare solo l’allenatore”.

I fenomeni del calcio? Scusa, chi?

“Gli allenatori bravi che non sanno vincere, gli esperti dei social media e gente che ha potere decisionale ma che sa di calcio come io di fisica dell’atomo. Il calcio è il regno della superficialità e dei luoghi comuni e un’etichetta non si nega a nessuno. Di solito quando la gente parla di me pensa a cosa è successo quindici, dodici, otto o dieci anni fa. È così per la maggior parte dei grandi allenatori che di solito guidano le squadre migliori e hanno le maggiori possibilità di arrivare in finale. Negli ultimi anni ho fatto tre finali, una con il Manchester United e due con la Roma. Guardo a tutto ciò un po’ divertito, e allo stesso tempo con orgoglio perché quando fai questo con un club senza storia in Europa, ti rendi conto che hai realizzato qualcosa di speciale”.

Qual è stata la tua partita perfetta e perché?

“Uhi, difficile rispondere… Porto-Lazio 4-1, semifinale Uefa 2002-2003? Loro hanno segnato dopo 50 secondi e in seguito non hanno più toccato palla. Inter-Bayern 2-0, dopo un minuto si sapeva già chi avrebbe vinto. Manchester-Tottenham 1-6, e avrebbero potuto essere 7, 8, 9. È altrettanto complicato non trovare una partita perfetta nei miei Chelsea che hanno mangiato la Premier”.

E quale il rimpianto?

Se parliamo di partite, tanti perché quando perdi pensi sempre che avresti potuto fare diversamente, e di partite ne ho perse parecchie. Se invece ti riferisci alle scelte professionali, il no a Florentino. Mi disse ‘Mou, non andare via adesso, il difficile l’hai fatto e viene il bello’… Sapevo che sarebbe stato così, però volevo tornare al Chelsea dopo tre anni in Spagna di grandi lotte… E dopo Budapest. Non per il casino combinato da Taylor, ma per il fatto di non essermene andato subito. Avrei dovuto lasciare la Roma, non l’ho fatto e ho sbagliato”.

Torneresti a lavorare in Italia?

“Certo”.

È vero che prima di lasciare Roma acquistasti un biglietto per andare a salutare i tifosi all’Olimpico?

Non uno, quattro. Ero in hotel con i miei assistenti che mi dissero: ‘Mister, meriti di salutare i tifosi e i tifosi meritano di salutare te. Andiamo’. Ci ho pensato qualche ora, poi ho temuto che mi avrebbero accusato di voler disturbare e io non faccio queste cose, mai”.

Segui ancora Roma e Inter?

“Non ho più visto giocare la Roma. L’Inter, sì”.

Quando l’Atalanta ha vinto l’Europa League cos’hai pensato?

“Ottimo, il premio alla competenza e a un progetto serio, tanti anni di lavoro fatto bene con lo stesso allenatore e la stessa filosofi a di gioco. Ero triste per Xabi, tifavo Bayer, però l’Atalanta l’ha ultrameritato. Un buon arbitro, un buon Var, degni di una finale europea”. I

Il padre di Bove un giorno disse: “Ho capito che mio figlio avrebbe potuto fare il calciatore solo quando a farlo esordire è stato Mourinho”.

“Bove è come me. Nessuno gli ha regalato niente. Ha esordito con me perché abbiamo principi simili, anche se uno ha vent’anni e l’altro sessanta”.

La qualità che ti riconosci?

“L’umiltà, la lealtà e l’educazione… Adesso tanti rideranno. Anch’io sorrido pensando alla gente che ride di questa affermazione, però è così… E il difetto, non essere paraculo”.

Nel futuro c’è una nazionale?

“Sì. Voglio giocare un Europeo o un Mondiale, unire un Paese intorno alla sua nazionale nello stesso modo in cui sono riuscito tante volte con i club e i tifosi. Voglio farlo per il calcio, per quello che questo sport rappresenta. Sarà incredibile”.

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