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Vincenzo Visco·24 maggio 2025
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Vincenzo Visco·24 maggio 2025
Per la quarta volta nella sua storia, il Napoli è Campione d’Italia. Un trionfo tutt’altro che scontato, quasi da underdog verrebbe da dire, costruito sulle macerie di una stagione fallimentare ma reso possibile dalla scelta coraggiosa e determinata di affidare la rinascita ad Antonio Conte.
Con lui è cambiato tutto: mentalità, struttura tecnica e fisica, ambizione. E alla fine, il popolo azzurro è tornato a festeggiare, perché il Napoli è di nuovo in cima all’Italia.
Ad ognuno dei protagonisti di questa cavalcata tricolore abbiamo assegnato un voto, accompagnato da una motivazione che racconta la loro stagione da campioni. Ora tocca a voi: nei commenti diteci se siete d’accordo con le nostre valutazioni… oppure no.
Il guardiano del tricolore. In una stagione memorabile, Meret ha saputo essere molto più di un semplice portiere: è stato un punto fermo, una presenza silenziosa ma determinante tra i pali. Pochissime le sbavature, tantissime le prestazioni sopra le righe, spesso decisive. Le sue parate non hanno soltanto protetto risultati, ma hanno scritto capitoli fondamentali della corsa Scudetto. I numeri parlano chiaro: 15 clean sheet – nessuno meglio di lui – e due rigori neutralizzati, tra cui quello pesantissimo contro il Milan che ha spianato la strada al definitivo sorpasso sull’Inter. È l’emblema della continuità, della maturità raggiunta e della sicurezza trasmessa alla difesa. Il futuro dirà se continuerà a difendere i pali del Napoli, ma c’è una certezza: è stato protagonista assoluto di questo trionfo, così come lo fu anche nel primo Scudetto dell’era De Laurentiis. Due tricolori con gli azzurri: pochi possono dirlo, lui sì. E questo resterà per sempre.
Una sola presenza, quella di Bologna, ma indimenticabile. Non giocava dal 5 gennaio (Monza-Cagliari), ma si fece trovare prontissimo. Sicuro nelle uscite, preciso coi piedi, mai in affanno. Un debutto così, in un momento così, è valso molto di più di quanto dica il minutaggio.
Il riscatto del capitano. Sembrava vicino all’addio, schiacciato da una stagione da dimenticare e da un Europeo ancora più deludente. Le parole del suo agente avevano aperto a scenari d’addio, ma Antonio Conte è stato chiaro sin da subito: “Da qui non si muove.” Una scelta che si è rivelata provvidenziale. Di Lorenzo ha risposto da capitano vero, con una delle sue migliori stagioni da quando veste l’azzurro. Tolta la prima a Verona, il suo rendimento è stato costante, solido, da leader. Ha difeso, spinto, guidato e sofferto con una determinazione ammirevole. È stato l’uomo delle certezze, sempre presente, sempre dentro la partita. E alla fine, ancora una volta, è toccato a lui: Giovanni Di Lorenzo ha alzato di nuovo lo Scudetto al cielo, impresa che era riuscita solo al più grande, a Diego Armando Maradona. Ora, accanto a quel mito, c’è anche lui. Pensarlo fa venire i brividi. Viverlo, per lui, è stato qualcosa di indescrivibile. Di Lorenzo è il volto della rinascita, l’uomo che ha attraversato le tempeste e ha saputo riportare il Napoli in vetta. Capitano vero, leader autentico, orgoglio di una città intera. E la storia, adesso, lo abbraccia ancora una volta, per sempre.
Il sogno del cuore. Non ha avuto tanto spazio, ma ogni volta che è stato chiamato in causa ha risposto con il cuore, quello di chi non indossa solo una maglia, ma un’emozione. Pasquale Mazzocchi è l’anima napoletana di questo Scudetto: ha vissuto questa stagione come una favola moderna, con umiltà, orgoglio e un senso di appartenenza raro nel calcio di oggi. In campo si è fatto trovare sempre pronto, offrendo corsa, grinta e duttilità. Fuori dal campo, è stato l’idolo della gente, il volto sincero del tifo trasformato in realtà. Da bambino sognava di giocare per il Napoli. Da uomo, ha alzato uno Scudetto con la squadra del suo cuore. Nessuno potrà mai togliergli questo traguardo: perché vincere è bellissimo, ma vincere con la maglia per cui hai pianto, tifato e lottato, ha un sapore eterno. La sua favola ha avuto il più bello dei finali. E l’ha meritato tutto.
La roccia silenziosa. Sempre presente, sempre affidabile. Rrahmani ha giocato tutte le partite di questa stagione da Scudetto, confermandosi il leader silenzioso di una difesa granitica. Non alza mai la voce, ma comanda con i fatti: posizione impeccabile, letture intelligenti, interventi puliti e tempestivi. Dopo l’intesa perfetta con Kim due anni fa, ha trovato nuovi equilibri accanto a Buongiorno e Juan Jesus, senza mai far rimpiangere nessuno. Il segreto? Disciplina tattica, spirito di sacrificio e una straordinaria capacità di dettare i tempi in mezzo alla retroguardia. In un Napoli che ha cambiato molto, lui è rimasto il punto fermo, l'uomo che garantisce equilibrio e tranquillità. È il tipo di difensore che ogni allenatore vorrebbe: zero fronzoli, massima efficacia. Rrahmani ha dimostrato, ancora una volta, che per vincere servono anche i campioni silenziosi, quelli che non rubano la scena, ma costruiscono ogni trionfo un intervento alla volta.
Il cuore nuovo della difesa. Lasciare il Torino da capitano per tuffarsi in un’avventura carica di incognite, in un Napoli reduce da una stagione disastrosa, non è stata una scelta semplice. Ma Buongiorno ha dimostrato fin da subito di avere il carattere e il coraggio giusto per affrontarla. Ha portato con sé un bagaglio prezioso: solidità difensiva, carisma, spirito da leader e una mentalità incredibile. In poco tempo ha il popolo azzurro, che ne ha apprezzato la grinta, la lucidità nelle letture e l’eleganza negli interventi. Purtroppo, gli infortuni lo hanno frenato nei momenti decisivi e lo hanno costretto a saltare il finale di stagione, ma la sua impronta sulla linea difensiva resta evidente. Quando ha giocato, ha contribuito a rendere impermeabile il Napoli di Conte. È arrivato con l’ambizione di vincere, e ci è riuscito. Il suo cammino in azzurro è appena cominciato, ma promette tanto.
L’usato sicuro che non tradisce. Chiamato più volte in causa, spesso in emergenza, Juan Jesus ha risposto con professionalità e dedizione. Ha sostituito Buongiorno al centro della difesa e si è adattato anche sulla fascia sinistra quando mancavano Oliveira e Spinazzola. Non ha mai cercato la scena, ma ha garantito affidabilità e spirito di sacrificio. Senza mai eccellere, ha dato tutto ciò che aveva, onorando la maglia e contribuendo con umiltà alla causa azzurra. Anche così si costruiscono i trionfi.
L’equilibrio al servizio del gruppo. Non ha rubato la scena, ma è stato una delle colonne silenziose dello Scudetto azzurro. Per Mathías Oliveira questa è stata la stagione della consacrazione, quella in cui ha dimostrato di poter essere una garanzia, partita dopo partita. Sempre generoso, instancabile sulla fascia sinistra, ha offerto corsa, attenzione e spirito di sacrificio, risultando più prezioso in fase difensiva che in proiezione offensiva. Il suo contributo, spesso sottovalutato, è stato invece fondamentale per mantenere l’equilibrio tattico della squadra. Conte si è sempre potuto fidare di lui, anche nei momenti più delicati: nel finale di stagione, causa emergenza, si è adattato al ruolo di difensore centrale, rispondendo con grande professionalità e senso del dovere. Oliveira non ha mai cercato i riflettori, ma ha costruito il suo valore giorno dopo giorno, con continuità e affidabilità. E anche questo ha fatto la differenza.
L’esperienza che serve sempre. Arrivato in punta di piedi, senza pretese da protagonista, Spinazzola ha saputo ritagliarsi uno spazio fondamentale nello scacchiere di Conte. Con la sua esperienza e intelligenza tattica, ha interpretato ogni compito con efficacia e professionalità. Il tecnico lo ha impiegato sia da terzino che esterno alto, sfruttandone al meglio le caratteristiche: corsa, qualità nei piedi e capacità di leggere i momenti della gara. Un gol pesantissimo, quello all’Olimpico contro la Roma, e un assist altrettanto decisivo per Lukaku nella rimonta col Parma: due lampi in una stagione piena di prestazioni solide, spesso silenziose, ma sempre preziose. Spinazzola ha messo il suo bagaglio di battaglie vinte al servizio del gruppo, diventando una delle pedine più affidabili nei momenti chiave. Un campione d’Europa che ha saputo calarsi con umiltà nella realtà azzurra, lasciando il segno con l’eleganza di chi non ha bisogno di clamore per essere determinante.
L’intelligenza al servizio della vittoria. Non è stato il regista scintillante e dominante degli anni passati, ma Lobotka ha saputo adattarsi, ancora una volta, con classe e maturità. Antonio Conte gli ha chiesto un ruolo diverso, più di copertura che di costruzione, e lui ha risposto da campione: con intelligenza tattica, spirito di sacrificio e un senso della posizione fuori dal comune. Ha giocato più da difensore aggiunto che da metronomo, ma senza mai perdere la pulizia nei passaggi, il ritmo nel palleggio e la capacità di dettare i tempi nelle fasi cruciali del match. Non si è mai tirato indietro, affrontando ogni battaglia con lucidità e silenziosa autorevolezza. Il suo contributo, magari meno appariscente, è stato però essenziale per dare equilibrio e continuità al gioco del Napoli. Anche questo secondo Scudetto porta la sua firma, quella di un giocatore che non ha bisogno dei riflettori per essere fondamentale.
L’altro scozzese dal cuore azzurro. Un altro scozzese che ha scoperto Napoli e se n’è innamorato. Billy Gilmour ha avuto poco spazio, ma ha saputo lasciare comunque il segno, ogni volta che Conte lo ha mandato in campo. Sempre pronto, sempre lucido, sempre utile. Ha giocato più basso rispetto a Lobotka, ma con lo stesso spirito: ordine, intelligenza e pulizia nelle giocate. Non ha mai cercato i riflettori, ma ha dimostrato di essere un tassello prezioso in una macchina perfetta. Un altro cuore che, da oggi, batterà forte per questa città.
Potenza, cuore e trasformazione. Quella di Anguissa è stata, senza dubbio, la sua stagione migliore da quando è a Napoli. Non solo per i numeri – 10 tra gol e assist, mai così prolifico – ma per l’evoluzione tattica che l’ha reso un elemento chiave nello scacchiere di Conte. Da mezzala d’inserimento, ha saputo sfruttare alla perfezione gli spazi creati dal sistema di gioco, facendosi trovare spesso vicino all’area avversaria e risultando letale. Il tutto senza mai perdere quella straordinaria forza fisica che resta il suo marchio di fabbrica, fondamentale nei momenti di sofferenza e nella fase difensiva. È stato l’uomo delle due fasi, sempre presente, sempre coinvolto. E questo Scudetto, il secondo per lui in maglia azzurra, ha un valore ancora più profondo: sarà dedicato al piccolo Daniele, in un gesto che ha commosso tutti. Perché Anguissa è così: un gigante sul campo, un cuore enorme fuori.
L’equilibrio che vale uno Scudetto. Arrivato a gennaio in punta di piedi, Philip Billing si è subito rivelato una risorsa preziosa. Conte lo ha utilizzato con intelligenza, non solo per far rifiatare Anguissa, ma per dare stabilità ed equilibrio a un centrocampo spesso sotto pressione. E proprio durante l’assenza del camerunense, è arrivato il momento che ha cambiato tutto: il gol contro l’Inter, pesantissimo, che lo stesso Conte ha definito decisivo per lo Scudetto. Un gesto, un impatto, un segno concreto su un trionfo storico. Silenzioso, ma fondamentale. Anche questo è essere campioni.
Dalla Scozia al cuore pulsante di Napoli. Come definirlo, se non una leggenda? Scott McTominay ha fatto una scelta che pochi avrebbero il coraggio di compiere: lasciare il tempio di Old Trafford, il Manchester United, la sua casa da sempre, per sposare una nuova fede, quella azzurra. Napoli lo ha accolto come si accolgono i predestinati: con amore viscerale. Lo scatto al centro del Maradona, il giorno della presentazione, è sembrato l’inizio di qualcosa di scritto nel destino. E così è stato. Tecnica sopraffina, intelligenza tattica rara, cuore immenso. Ha segnato in ogni modo possibile, ma quel gol in semirovesciata contro il Cagliari ha fatto esplodere un’intera città: è stato il boato di un popolo nei confronti del suo eroe. Ma più dei gol, resteranno impresse quelle lacrime al fischio finale: sincere, profonde, potentissime. Le lacrime di un uomo che ha realizzato di aver compiuto un’impresa galattica, qualcosa che va oltre il calcio, destinata a restare per sempre nella storia e nei cuori. McTominay non è stato solo un campione. È diventato un fratello. E resterà nel sangue di questa terra. Qualcuno chiamerà il proprio figlio Scott, altri si incideranno sulla pelle il suo nome o il ricordo di quel gol. Ma tutti, nessuno escluso, porteranno nel cuore una parola sola, diventata promessa eterna: McFratm.
Il soldato immarcescibile. Non è stata la sua stagione più brillante sul piano dei numeri, ma sul campo ha lasciato un’impronta profonda, da vero uomo squadra. Matteo Politano è stato il braccio destro di Conte, un soldato fedele che ha messo fiato, gambe e cuore al servizio della causa azzurra. Il tecnico spesso lo ha letteralmente telecomandato dalla panchina, e lui ha risposto sempre con dedizione assoluta, sacrificio e qualità. I suoi tre gol sono arrivati tutti in momenti chiave della stagione: a Bergamo, contro il Milan e a Monza. Non marcature qualunque, ma colpi pesanti che hanno inciso nella corsa Scudetto. Al sesto anno a Napoli, Politano si è confermato uno di casa, un figlio adottivo di questa terra che lo ha accolto e amato. Non ha mai smesso di lottare, nemmeno nei momenti più duri. E oggi, ancora una volta, può gridarlo forte: è Campione d’Italia.
Il primo sigillo nel posto giusto. Ha trovato poco spazio, ma ogni volta che è stato chiamato in causa ha risposto con disponibilità, umiltà e qualità. Cyril Ngonge ha vissuto la sua prima esperienza in una grande squadra con l’atteggiamento giusto, mettendosi a disposizione e facendo sentire la sua presenza nei momenti utili. E così, nel cuore di Napoli, ha conquistato il primo titolo della sua carriera. Un traguardo che non si dimentica, raggiunto in una città che lascia il segno. E che ora, in lui, ha lasciato un’impronta indelebile.
L’arte dell’inganno e della rinascita. Ha lo sguardo di chi sembra fregarsene di tutto, e forse è proprio questo che lo rende imprevedibile, letale. David Neres ha vissuto una stagione a due volti, ma nel complesso, splendida. Nella prima parte, da subentrante, è stato una vera arma segreta: dribbling fulminanti, strappi improvvisi, assist e giocate che hanno ricordato il primissimo Kvaratskhelia. Entrava e spaccava le partite, cambiandone ritmo e destino. Poi, con la partenza del georgiano e l’impiego da titolare, la sua luce si è un po’ affievolita, anche a causa di infortuni che hanno frenato la continuità e fatto chiudere l'anno con un minutaggio bassissimo. Ma il bilancio resta ampiamente positivo: Neres ha ritrovato se stesso, ha risposto alle critiche con il talento e ha inciso in una stagione storica, conquistando uno Scudetto che profuma di riscatto. Dopo Portogallo e Olanda, anche in Italia ha lasciato il segno. Il bello è che sembra solo all’inizio.
Tecnica e cuore immenso. Non sempre titolare, ma sempre decisivo. Giacomo Raspadori è il dodicesimo uomo che ogni allenatore sogna, il compagno che ogni squadra vorrebbe avere. Ha accettato ogni ruolo, ogni compito, ogni sacrificio pur di contribuire al successo del gruppo. Esterno, trequartista, seconda punta: non ha mai fatto una piega, mettendo il cuore dove serviva. L’assenza di Neres non si è fatta sentire grazie a lui. Conte, riconoscendone il valore, ha modellato le sue scelte tattiche per esaltarne le qualità: tecnica raffinata, visione di gioco, intelligenza applicata al contesto. E come due anni fa a Torino, anche quest’anno Jack ha timbrato il cartellino nei momenti che contano: i gol contro Fiorentina e Lecce sono pesati tantissimo nel cammino tricolore. Più che un jolly, è stato un simbolo silenzioso di questa cavalcata. Raspadori non sarà sempre sotto i riflettori, ma nel cuore di Napoli, lì sì, ci resterà per sempre.
Il cuore oltre il campo. Ha giocato pochissimo, è vero. Ma ha dato tutto, sempre. Giovanni Simeone non ha mai smesso di essere parte viva di questo Napoli, con la testa, con il cuore, con quell’amore viscerale per una maglia che sente sua come pochi altri. In ogni allenamento, in ogni minuto in cui è stato chiamato in causa, ha messo grinta, dedizione, spirito di sacrificio. Un compagno esemplare, un uomo squadra vero. Anche lui, questo Scudetto, se l’è meritato. Eccome.
Il gigante di Conte. Il mister Conte lo ha voluto con forza, e lui, come sempre con Conte, ha risposto con tutto sé stesso. Romelu Lukaku ha messo cuore, corpo e anima al servizio del Napoli, diventando l’attaccante che ogni squadra sogna. Ha spesso superato i suoi limiti, stringendo i denti, abbassando la testa e lavorando in silenzio. I numeri raccontano il resto: è stato - per ora - l’unico in Serie A a chiudere la stagione in doppia cifra sia per gol che per assist, come già accaduto con Conte all’Inter quattro anni fa. Una simbiosi, la loro, che continua a produrre successi. In area è stato un faro: sponde, seconde palle, pressione feroce sul portiere e gol pesantissimi. Ha trascinato, protetto e rifinito. Ha lottato. Ha vinto. E messo il sigillo finale segnando l'ultimo gol di questa stagione trionfale e leggendaria, facendolo a modo suo. È diventando l’uomo in più nella corsa tricolore, forse non perfetto per tutti, ma perfetto per il Napoli. E per questo Scudetto.
Andato via a gennaio, ma impossibile dimenticare il suo contributo. Quando Meret è stato costretto ai box, lui ha risposto presente con prestazioni sicure e decisive. Ha fatto il suo dovere, in silenzio e con professionalità. Questo Scudetto è anche un po’ suo, avrebbe meritato di sollevarlo, almeno una volta, anche lui.
A gennaio ha salutato Napoli, ceduto per una cifra impossibile da rifiutare. Ma il segno lasciato da Kvaratskhelia su questo Scudetto è vivo, profondo, incancellabile. Cinque i gol realizzati prima dell’addio, tutti in partite decisive, tutte vittorie fondamentali per costruire la base di un sogno poi esploso e concretizzato nei mesi successivi. È stato il primo mattone, il soffio iniziale sul fuoco. La sua classe, le sue serpentine, quel modo unico di accendersi hanno dato al Napoli il passo giusto per ripartire. Avrebbe meritato anche lui di viverlo fino in fondo, questo Scudetto. Ma il destino lo porterà presto su un altro palcoscenico: si giocherà la Champions League, forse la sfida più importante della sua giovane carriera. Resta, però, l’affetto eterno. Kvara è e resterà nel cuore dei napoletani Per ciò che ha dato, per ciò che ha rappresentato. Anche quest’anno. Anche da lontano. Per sempre.
Il condottiero del destino azzurro. Il suo compito era chiaro: prendere una squadra allo sbando e riportarla al vertice. Antonio Conte, ancora una volta, ha fatto ciò che gli riesce meglio. Dopo aver vinto a Torino, Londra e Milano, ha compiuto un'altra impresa storica: portare il Napoli dallo smarrimento post-Scudetto al tricolore ritrovato. Ha ereditato una squadra crollata al 10° posto e l'ha trasformata con fatica, sudore e disciplina. Il suo mantra, “Amma faticà”, è diventato non solo uno spot commerciale per vendere le magliette, ma da subito il credo dello spogliatoio. La società lo ha sostenuto sul mercato, lui ha risposto con pragmatismo e una maturità tecnico-tattica mai così evidente: ha cambiato modulo più volte, ha sopperito agli infortuni, ha reinventato il sistema di gioco senza mai snaturare l’identità. Nonostante la perdita di Kvara e alcuni limiti strutturali, il suo Napoli ha marciato con fame e determinazione. Qualche polemica, come da copione, ma il risultato finale è da leggenda. Il futuro resta incerto, ma il presente è già storia. Conte è diventato il primo di sempre della Serie A nell'era moderna a vincere il titolo con tre squadre diverse. Ma quello che conta di più, ora, è che il nome di Antonio è scolpito accanto a quelli di Ottavio Bianchi, Alberto Bigon e Luciano Spalletti. Campioni d’Italia, ieri e oggi, grazie a uomini così. Resterà o meno lo dirà il tempo, ma quel che è certo è che Napoli non dimenticherà mai chi ha riportato la gloria sotto il Vesuvio.
📸 CARLO HERMANN - AFP or licensors