Marcello Lippi, l’Uomo dei Sogni dice basta | OneFootball

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·23 ottobre 2020

Marcello Lippi, l’Uomo dei Sogni dice basta

Immagine dell'articolo:Marcello Lippi, l’Uomo dei Sogni dice basta

Per quanto sia impossibile farne un ritratto in un solo articolo, non si può restare indifferenti dinanzi alla notizia del ritiro ufficiale dall’attività di allenatore di Marcello Lippi. Per quelli della mia generazione, i quarantenni di oggi, Lippi è candidato a restare per distacco l’allenatore juventino più amato e bravo di tutti grazie ad una serie di meriti e traguardi raggiunti sul campo di battaglia che hanno contribuito a trasformarne le sembianze da umane a divine.

Lippi è il messaggero mandato dalla provvidenza ad invertire una rotta che a metà degli anni novanta stava trascinando la Juventus verso un pericoloso e irreversibile oblio, al netto di un curriculum che fatto salvo un ultimo anno di buon livello a Napoli, non sembrava essere portatore di grandi auspici. E invece creando una miscela esplosiva e funzionale di onesti gregari completamente devoti al loro comandante e campionissimi con diverse storie da romanzo alle spalle, Marcello riesce con un’impresa senza precedenti ad inanellare il filotto che porta la Juventus sul tetto del mondo, passando per il primato nazionale prima e quello continentale poi nel giro di poco più di due anni, 818 giorni per l’esattezza.


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Tra le sue caratteristiche principali spicca senza dubbio il grande coraggio, specie quando ci sono da fare scelte talmente importanti da risultare troppo rischiose o impopolari: penso al varo di quel 4-3-3 decisamente offensivo con cui dopo i primi complicati mesi torinesi, svolta la stagione e probabilmente la sua carriera, o al momento in cui, informato della possibilità di monetizzare con Roberto Baggio, il campione più amato dell’epoca, dà risposta è immediata e parere positivo creando l’innesco di quella leggenda che risponde al nome di Alessandro Del Piero. Lippi è forse il primo allenatore italiano ad assumere i connotati del classico manager calcistico inglese, per quanto è proficua la sinergia con i dirigenti bianconeri, e non è un caso se trai colleghi che maggiormente lo ammireranno portando la sua Juve come esempio da seguire c’è Sir Alex Ferguson. E’ anche grazie a questa dote che nel corso dei suoi due cicli juventini riesce a garantire continuità ad una macchina quasi perfetta, nonostante ogni anno ne vengano sistematicamente cambiati alcuni ingranaggi.

A proposito dei suoi cicli, altro unicum della sua carriera è l’essere riuscito a sfatare il tabù della cosiddetta minestra riscaldata, quella metafora che si usa per spiegare che difficilmente il ritorno di un allenatore sul “luogo del delitto” può portare a buoni risultati: per Marcello non è così, quando torna a casa nell’estate del 2001 l’incantesimo sembra non essersi mai rotto, ma soltanto messo in stand-by. Altri due scudetti e altrettante supercoppe nazionali (alla fine saranno rispettivamente cinque e quattro) la cui bellezza viene purtroppo parzialmente oscurata dalla terza Champions League persa. Ecco, Lippi non è stato perfetto, la perfezione non è di questo mondo, si sa.

Ha commesso, come tutti, i suoi errori, come quella volta che abbandonò la nave in colpevole ritardo e da promesso sposo alla peggiore tra le rivali, o quando da fresco campione del mondo con la nazionale italiana gli venne meno il proverbiale coraggio, e scelse di non tornare una terza volta da Madama, ma di restarle a suo modo fedele come collaboratore/consigliere della nuova dirigenza juventina, quella “simpatica” del post calciopoli, facendo però più danni che cose buone. Gli abbiamo perdonato tutto, proprio come si fa con le persone di famiglia, persino quell’inspiegabile tendenza a complicarsi la vita nell’habitat in cui, in fin dei conti, la Juventus ha spadroneggiato come mai nella sua storia proprio grazie a lui, la Champions League. Vittoria al primo tentativo, record di tre finali e 42 gare consecutive (54 europee, se si conta anche la coppa Uefa 1994-95) senza eliminazione, ma anche tre finali perse condite da qualche scelta che si è fatto fatica a comprendere, come Del Piero in panchina nel primo tempo di Monaco 1997 o Camoranesi e Montero fuori ruolo e Zalayeta preferito a Di Vaio a Manchester 2003.

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Tra i vari aneddoti che lo riguardano e  i tributi che gli hanno dedicato colleghi e vari addetti ai lavori che ne hanno incrociato il cammino, scelgo il già citato Ferguson che di lui un giorno disse: “E’ un uomo imponente, guardarlo negli occhi è sufficiente per dirvi che avete a che fare con qualcuno che è al comando di se stesso e della sua professione. Una sera, durante uno dei tanti Juve-Manchester di quegli anni, ero con la mia tuta che annegavo sotto la pioggia battente: quando mi girai verso la sua panchina lo vidi imperturbabile, elegantissimo e con il suo sigaro in bocca, e mi innervosii ulteriormente nel constatare che oltre ad essere bravo era anche dannatamente bello

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