Juventus FC
·28 dicembre 2024
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378 gare ufficiali con la maglia della Juventus.
Le sue dodici annate in bianconero – dalla stagione 1978/1979 alla stagione 1989/1990 – sono state costellate di emozioni forti e di successi indimenticabili. Tra gli anni '70 e '80 del secolo scorso, è andato a comporre – nelle vesti di stopper – con Gaetano Scirea, Claudio Gentile e Antonio Cabrini un blocco difensivo tra i migliori della storia del calcio italiano e mondiale. Le maniche arrotolate sopra i gomiti. Estate o inverno, non contava nulla. Quella era la "sua" casacca. Il suo modo di affrontare la partita. Un segnale per il centravanti di turno. Dodici i trofei vinti indossando la nostra divisa e nella sua ultima stagione in bianconero, prima di appendere gli scarpini al chiodo, anche la fascia da capitano: 4 Scudetti, 3 Coppa Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa UEFA, una Supercoppa UEFA e, ciliegina sulla torta, una Coppa Intercontinentale. Sergio, poi, un'altra Coppa UEFA l'ha vinta nelle vesti di vice allenatore quando sulla panchina della Juventus c'era un certo Giovanni Trapattoni: era la stagione 1992/1993.
In questo modo, poche settimane fa, vi raccontavamo che Sergio Brio è Fan Ambassador di Juventus. Sergio è Storia della Juve, con la S maiuscola, e chi meglio di lui conosce il cuore dei nostri tifosi.
Abbiamo pensato di fare una lunga chiacchierata con lui, per scoprire a nostra volta un po’ del suo, grande, cuore.
Buona lettura.
«Questa è la mia quarta vita alla Juventus. La prima volta è quando sono arrivato a Torino, da Lecce a 18 anni: ho trascorso un periodo in prestito, alla Pistoiese, ho giocato in C e in B, e sono tornato a Torino, per restare qui ben 12 anni. La terza vita, dopo le due da calciatore, è arrivata quando un giorno ho ricevuto una telefonata da Mister Giovanni Trapattoni, che mi propone di entrare nel suo staff. All’epoca ero a Coverciano, a studiare da allenatore: inizialmente ho risposto di no, perché stavo studiando, e perché avevo in mente di stare con la famiglia, ma il Trap ha insistito e, in accordo con mia moglie, ho accettato: siamo negli anni ’90 e la Juve è di nuovo nella mia vita»
«Ho lavorato con Trapattoni a Torino e a Cagliari, poi ho allenato anche in Belgio, dopodiché ho chiuso con la carriera da allenatore e ho iniziato quella di commentatore televisivo. Finché non ho conosciuto, qualche anno fa, Francesco Calvo…»
«Ci siamo parlati e lui ha pensato di coinvolgermi su un tema a cui il Club è molto attento e che a me appassiona: il rapporto con i tifosi. Abbiamo svolto un lavoro molto lungo e approfondito per capire le loro necessità ed è con un entusiasmo enorme che, a 68 anni, sono felice di essere di nuovo nella famiglia della Juventus»
«Tutto: è la mia vita, la mia famiglia. Ho spesso anteposto la Juve alla mia famiglia vera, per la Juve ho lottato, questo Club mi ha fatto diventare un uomo, con dirigenti che ti insegnavano, letteralmente, a vivere. Io sarò sempre eternamente grato a questi colori, ho un senso di riconoscenza enorme: dal canto mio per la Juve ho dato tutto quello che avevo, e ho anche pianto, come quella notte ad Atene…»
«Sento questa città come casa mia, e negli anni la ho vista cambiare, tanto: quando giocavo era un periodo in cui alla sera tutto era chiuso, adesso è migliorata tantissimo, si sta davvero bene qui»
«Io sono Fan Ambassador della Juventus: intrattengo cioè i rapporti con i tifosi, incontrandoli in occasione delle partite, raggiungendoli quando organizzano eventi. Questo è un ruolo che mi piace e mi appassiona tantissimo, perché io li conosco, so le loro esigenze, capisco quello che può mancare loro e quello su cui possiamo essere più vicini. I tifosi sono parte integrante della nostra famiglia, sono il dodicesimo uomo, e non è un modo di dire, lo pensavo anche da calciatore: dobbiamo far capire loro che sono importanti. Stiamo organizzando dei raduni negli Official Fan Club, abbiamo fatto due eventi in Lombardia e Calabria e sono stati davvero bellissimi: è qualcosa di emozionante stare bene con loro, ed è per questo che gli incontri alle volte durano tante ore. Mangiamo insieme, magari guardiamo la partita, e loro capiscono che il Club è vicino. Il contatto con loro è qualcosa di primario, su cui stiamo lavorando bene, anche contattandoli per risolvere eventuali loro problematiche».
«Come cambia il tifo nel corso dei decenni? Tanto, perché è cambiato il mondo, è cambiato il calcio e siamo cambiati noi. Basta vedere come è strutturata adesso la Juve, è un’azienda, vera e propria: ai miei tempi era tutto molto diverso, possiamo definire il mio calcio come “pane e salame”… Ho visto cambiare totalmente questo sport, e non posso dire se in bene o in male: semplicemente, è differente. Noi ci allenavamo con i tifosi che ci aspettavano fuori dal campo quando tornavamo o uscivamo dagli spogliatoi, il contatto era totale. Adesso i giocatori devono stare attenti a tanti altri aspetti, a quello che comunicano, come lo fanno, e ovviamente i social media hanno accelerato questo processo. Anche i rapporti con la stampa erano diversi, ai miei tempi i giornalisti venivano a intervistarci quasi sotto la doccia, avevano i nostri numeri di telefono. I tifosi, però, le persone, nel profondo, sono sempre le stesse, soprattutto quelle che tifano Juve. E il motivo è semplice: il tifoso juventino ha solo una parola nel vocabolario, vittoria. Anche quando io ero giocatore venivamo fischiati per un pareggio, e non nego che alle volte la cosa ci facesse arrabbiare, perché magari arrivavamo da un filotto di vittorie. Però è quello che significa essere alla Juve, perché questo club ha in mente solo la vittoria, come amava dire Giampiero Boniperti»
«Solo chi lo ha conosciuto lo può raccontare davvero, e sa quanto per lui contasse solo la Juve, di cui faceva gli interessi a 360 gradi. Quando arrivai qui non mi pareva vero di avere un Presidente che mi proteggeva, e con cui potevo confrontarmi per avere sempre i consigli migliori su come gestire ogni situazione»
«Il mio ruolo è cambiato molto, il mio era un altro tipo di calcio. Io ero un marcatore, come Gentile, ma non è vero che all’epoca giocassimo un calcio difensivo, perché in fase di possesso lui e Cabrini diventavano due ali e si aggiungeva anche Scirea: Gaetano aveva un passato da centrocampista all’Atalanta. Quindi tutti aiutavano anche nella fase offensiva. Il più duro che ho marcato? Van Basten, senza dubbio, perché era ambidestro, alto, e aveva l’abitudine di andare incontro ai compagni, rendendo molto più difficile l’anticipo. Allo stesso tempo, se si girava e ti rubava il tempo, andava via. E non potevi nemmeno portarlo sul piede debole, perché non aveva piedi deboli…»
«La Finale di Coppa Intercontinentale: la vincemmo anche con un rigore segnato da me, quando si decise dal dischetto. In quella passeggiata verso l’area si provano tante cose insieme: io, quel giorno, a Tokyo, battei il primo rigore in partita. Li calciavo in allenamento, ma non li avevo mai tirati durante un match, e sapevo che, se fossimo andati ai penalty, uno sarebbe stato mio. Quella partita fu durissima, marcai bene Castro e Borghi, due grandi giocatori, ma ero davvero stanchissimo, avevo la nebbia negli occhi, e si batteva con decine di fotografi dietro la porta. E poi non volevo lasciare di me il ricordo di quello che aveva sbagliato il rigore… Trapattoni mi vide, mi chiede “Come Stai?” “Mi faccia una domanda di riserva”, risposi, e lui mi disse: “Tu lo tiri bene, lo incroci con forza, so che lo lo calcerai così forte che sarà imparabile. Vedrai, andrà tutto bene”. Il Trap mi ha cambiato il mondo, in quel momento: fra l’altro prima di tirarlo, l’arbitro mi chiese anche di aspettare… eppure calciai perfettamrnte e mi tolsi un grande peso»
«Scirea non fu mai espulso, io una volta sola: Napoli-Juve, quello del gol incredibile di Maradona su punizione. A fine primo tempo io e Bagni lottavamo duro e fummo espulsi entrambi. Ma io sono ancora oggi convinto di non averlo toccato!»
«Direi Gatti, fisicamente è come me, ma può fare anche meglio di me, è qui da due anni, e ha ampi margini di miglioramento»
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