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·22 marzo 2020
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La scoperta del grande Deportivo, o meglio il Superdépor, è un lungo viaggio nella storia del calcio spagnolo. 1988: la situazione non era migliore di quella attuale: a La Coruña si temeva il peggio, con la squadra in forte crisi economica impegnata nella lotta per non retrocedere nella terza serie, ma irruppe nella storia di questo club un uomo destinato a cambiare per sempre la percezione di questa squadra. Si chiama Augusto César Lendoiro, e il presidente non aveva neppure voglia di farlo: i debiti del club erano tanti, ma dopo tre convocazioni elettorali divenne il presidente della squadra. Quella squadra capace di sconvolgere il concetto di ascesa calcistica, di riportare il calcio al centro della vita di La Coruña, storicamente più legata all’hockey su pista, quella squadra che per 17 anni si è potuta sedere al tavolo con le grandi di Spagna e d’Europa.
Nel calcio aveva già avuto esperienze con una piccola realtà del corugnese, l’Ural un club dilettantistico, mentre completava gli studi di giurisprudenza prima di diventare un professore di liceo. Ci vollero due anni di Segunda per sistemare il bilancio e far progetti per sognare in grande: la squadra era stata affidata ad Arsenio Iglesias, vecchia gloria del club già alla guida durante gli anni più difficili della squadra. Arrivò quell’atteso ritorno in Liga, ma servivano degli acquisti importanti per poter competere con Barcellona e Real Madrid, dato che l’epoca del calcio basco si era sostanzialmente conclusa con la Copa del Rey del 1988 vinta dal Barcellona in finale sulla Real Sociedad.
Gli acquisti furono tanti, ma due cambiarono totalmente il volto della squadra: venivano entrambi dal Brasile, uno era Mauro Silva del Bragantino, che in Galizia viene ancora oggi considerato uno dei migliori centrocampisti di sempre; l’altro invece arrivava dal Vasco da Gama, José Roberto Gama, meglio conosciuto come Bebeto. Inutile dire che l’impatto di questa squadra sulla storia della Liga, fu devastante e già dalla stagione 1992-93 il passo fu quello delle migliori: un piazzamento in terza posizione era il miglior risultato della storia del club ma era chiaro che le premesse per salire al piano di sopra si erano già formate.
Anche perché Bebeto fu il capocannoniere e Liaño il miglior portiere del campionato. Il ’94 era l’anno buono per provare a vincere nonostante il gemello del gol di Bebeto, Romário, che di lì a poco avrebbe vinto con lui anche il Mondiale di Usa ’94, stesse disputando con la maglia del Barcellona una stagione da 30 gol in 33 partite. Ma la beffa fu incredibile: perché per vincere il titolo del 1994 serviva vincere l’ultima partita col Valencia, che però terminò sullo 0-0 per colpa di un calcio di rigore sbagliato dal serbo Miroslav Djukic all’ultimo minuto dell’ultima giornata. Deportivo e Barcellona arrivarono a pari punti, ma vinsero i blaugrana per differenza reti.
Prima grande delusione di una squadra che ebbe comunque la forza di reagire, a partire dalla stagione successiva in cui portò in bacheca il suo primo trofeo di sempre, la Copa del Rey 1995 vinta in finale contro il Real Madrid, sconfitto poi anche in estate in Supercoppa di Spagna. Si era ormai creata una realtà competitiva, destinata a potersela giocare ovunque, tanto che nella Coppa delle Coppe 1996 si dovette arrendere solamente in semifinale, peraltro contro la squadra che poi vinse il torneo, ossia il PSG.
Nel frattempo però sulla panchina a Iglesias era subentrato un basco di grande carattere e senza timori reverenziali, uno capace di saltare dalla panchina dell’Athletic a quella della Real Sociedad senza alcun problema. Ma se Lendoiro e Iglesias, che tra loro non avevano tra l’altro un gran rapporto, anzi, hanno gettato le basi per un grande Deportivo, Irureta creò il vero Superdépor, quello capace di raggiungere il suo picco più alto.
L’anno di gloria è la stagione 1999-00. Non c’era più Bebeto, ma l’attacco fu rinforzato a dovere: il Brasile questa volta gli aveva donato Djalminha, uno dei più grandi giocolieri mai visti, limitato solo da un carattere difficile da controllare che per esempio lo portò nel 2002 a dare una testata al suo allenatore Irureta, gesto che gli costò la convocazione per il Mondiale di Corea e Giappone dove al posto suo Scolari convocò un giovanissimo Kakà.
Per il ruolo di centravanti c’era un sentitissimo dualismo tra stranieri: un olandese, detto il Pistolero, tremendamente simile sia nei tratti somatici che nella visione della porta a Luis Suárez, che quel soprannome l’ha reso glorioso nel calcio, era Roy Makaay; tappato dalla stagione da 22 gol dell’olandese c’era quello che per anni è stato assieme a Nuno Gomes l’unico centravanti a disposizione del Portogallo, Pedro Pauleta, che però andò via per mancanza di minutaggio.
Quel campionato il Deportivo La Coruña lo amministrò per tutta la sua durata, con piccole fughe costantemente interrotte da un gruppo di inseguitrici, guidate dal solito Barcellona, davvero nutrito. Perse lo scontro diretto al Camp Nou, ma riuscì a blindare il suo vantaggio e a portare nella propria storia il primo campionato spagnolo di sempre. Si tratta dell’ultima squadra della storia della Liga ad aver vinto il suo primo titolo.
Dagli spettri della terza divisione al tetto di Spagna, il miracolo di Lendoiro era compiuto. Il suo Dépor, legittimamente Superdépor era a tutti gli effetti una grande del Paese, tanto che fino alla stagione 2003-04 riuscì a chiudere nel podio della Liga. Il vero obiettivo rimasto era quello di provare una grande campagna europea, in un’epoca in cui il calcio spagnolo stava ritornando a fare incetta di titoli: il Real vinse la Champions del 2000 e del 2002, il Valencia perse due finali di Champions ma vinse Coppa Uefa e Supercoppa, addirittura l’Alavés riuscì ad arrivare fino a una finale di Coppa Uefa, quella clamorosa persa per 5-4 contro il Liverpool.
Al Deportivo arrivarono altri calciatori di enorme talento: la fantasia e la strabiliante tecnica di Juan Carlos Valerón, i centimetri e i gol di Diego Tristán (Pichichi nel 2002), la gioventù del Rifle Pandiani, all’epoca atteso come un possibile fenomeno del calcio uruguaiano. Tutto culminò con la Champions League del 2004 (nonostante il clamoroso 8-3 subito con il Monaco ai gironi che fece bruciare il completo arancione del club), l’ultimo vero Superdépor: lo sanno bene la Juventus, eliminata agli ottavi di finale, e soprattutto il Milan, vittima a Riazor di una delle rimonta più famose della competizione ai quarti di finale.
Era l’edizione perfetta per una sorpresa, visto lo stadio non certo elitario della finale come quello di Gelsenkirchen, ma la squadra di Irureta non riuscì a superare in semifinale il Portò, che con un 1-0 globale riuscì ad andare in finale e vincere contro il Monaco. Lì di fatto è finito il grande Deportivo che l’anno dopo uscì ai gironi di Champions e perse anche Irureta, per cominciare il progressivo declino che lo ha allontanato definitivamente dal calcio che conta, dopo anni indimenticabili in cui si è vista una delle più sorprendenti, romantiche e trascinanti delle ascese calcistiche.