Riserva di Lusso
·9 febbraio 2021
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·9 febbraio 2021
Penso che abbiate un fardello pesante. Non vorrei essere in voi.
Parole forti, di certo non incoraggianti. La location è posta in una delle innumerevoli Springfield in giro per l’America, ma decisamente nota ed individuabile sul mappamondo dagli amanti della pallacanestro: l’indice punta sul Massachusetts, laddove – qualche giro di orologio indietro nella storia – James Naismith ha dato vita alla disciplina. Anno domini, 2009: Michael Jordan entra nella Hall of Fame e regala al mondo intero un discorso d’induzione memorabile.
Il virgolettato di cui sopra è parte integrante di quei 23 minuti e 23 secondi – no pun intended – che il canale ufficiale della HoF su YouTube ci regala. Il mittente è conosciuto in ogni angolo del globo terracqueo, ma chi è il destinatario? Anzi, chi sono i destinatari? Rispondono ai nomi di Jeffrey, Marcus e Jasmine – ma il medesimo avvertimento riguarderà anche le gemelle Victoria e Ysabel, nate cinque anni dopo quel discorso -, il cognome è ovviamente Jordan.
Beh, sono sempre stato affascinato da quell’avvertenza, un cartellino giallo tendente all’arancione. Al figlio di James si può incriminare molto di ciò che ha fatto dentro e fuori il parquet nel corso della sua carriera, specialmente se restringiamo il cerchio alla sua attitudine e predisposizione caratteriale. Ciò emerge anche in questo avviso al ramo successivo del suo rigoglioso albero genealogico. Avete una bella responsabilità addosso, figli miei: quel cognome potrebbe farvi male.
In effetti, non ci fu profezia più azzeccata: sia Jeffrey che Marcus tentarono di intraprendere il percorso cestistico, ma il tutto svanì in una serie di annate inconcludenti al college. Succede nella maggior parte delle occasioni, per coloro che crescono sotto l’egida di un padre o una madre sportivamente (e non solo) leggendari. Come in ogni aspetto della vita, però, ci sono determinate eccezioni che rendono valida la regola: Paolo figlio di Cesare, ad esempio. Oppure un olandese con le radici in Catalogna.
Lo spunto per quest’articolo proviene direttamente dalle parole di un padre, questa volta in forma scritta. Un Jordan del pallone, senza invischiarsi in scomodi paragoni privi delle dovute proporzioni. Di nome fa Johan e ciò che segue non può che essere Cruijff. O Cruyff, secondo la trasformazione del cognome del Profeta per ragioni prettamente commerciali. Nella sua autobiografia, la leggenda di Ajax e Barcellona – tra le altre – dedica svariate pagine alla figura del figlio, il terzogenito dopo le sorelle Chantal e Susila. Emerge un racconto intriso d’affetto, ma soprattutto stima, con un pizzico di testardaggine, come nei primi giorni dopo la venuta al mondo del suo successore.
Mentre Danny era in ospedale, avevo registrato Jordi all’anagrafe di Amsterdam. Il nome completo era Johan Jordi, ma poi venne sempre chiamato Jordi. Portai tutti i documenti della registrazione con me a Barcellona. Per fortuna, perché subito si verificò un inconveniente. Infatti, quando andai all’anagrafe spagnola per iscrivere Jordi sotto il nostro domicilio, mi dissero che non l’avrei dovuto registrare come Jordi, nome catalano (del santo patrono della Catalogna) e quindi vietato, bensì come Jorge.
L’incoronazione di Juan Carlos e la fine del franchismo erano ancora lontane qualche mese dall’accadere, dunque permaneva la legge che vietava la nominazione – con la conseguente negazione del diritto alla cittadinanza – al catalano, al galiziano ed all’euskara, la lingua basca propria di realtà calcistiche come Real Sociedad e Athletic Bilbao. Ma né mamma Danny né tantomeno papà Johan avevano intenzione di abbandonare quella che, ormai, era divenuta una consuetudine familiare: chiamare i figli con nomi che andassero oltre i confini della tradizione olandese, come nel caso della “francese” Chantal e della secondogenita “indiana”, Susila. Dunque, il fuoriclasse del Barça non si arrese:
Dato che avevo già registrato Jordi all’anagrafe di Amsterdam, potevo mostrare all’impiegato l’atto di nascita olandese e sostenere che lui poteva semplicemente copiare quel documento ufficiale. Anche perché, che lui lo copiasse o meno, l’atto di nascita sarebbe comunque stato valido in tutto il mondo. Questo aspetto rassicurò l’impiegato, che così registrò Jordi all’anagrafe catalana.
Fin dall’inizio, dunque, un cammino in salita. E poco importa se negli stessi giorni i blaugrana di Rinus Michels avessero abbattuto 0-5 il Real Madrid, in una vittoria che andava ben oltre le linee che delimitano il manto erboso del Santiago Bernabeu. Jordi avrebbe calcato anche quello, per ovvie ragioni con la squadra in trasferta. Permane uno sviluppo con annessa scalata, nonostante tutto. Nonostante abbia probabilmente iniziato a calciare prima di gattonare, sebbene sia venuto su a biberon e Total Football.
La carriera – e la vita, soprattutto – di Jordi Cruijff fu marchiata dall’impronta del padre, nel bene e nel male. Non mancano, infatti, le similitudini tra i due, dalla disposizione tecnico-tattica all’inclinazione verso una sorta di nomadismo, alla costante ricerca della nuova avventura.
Mi ha colpito molto, sfogliando le pagine del testamento del nativo di Betondorp, quartiere a pochi passi dallo stadio De Meer – la prima casa dell’Ajax -, il legame tanto vicino entro le mura casalinghe quanto lontano nelle esperienze sul campo di padre e figlio.
Johan ha militato nelle fila di Ajax, Barcellona, Los Angeles Aztecs, Washington Diplomats, Levante e Feyenoord, con un ritorno in maglia ajacide prima di passare ai rivali di Rotterdam. Jordi, invece, ha indossato le casacche di Barcellona, Manchester United, Celta Vigo, Deportivo Alavés, Espanyol, Metalurg Donetsk e Valletta. Per quanto riguarda le esperienze in panchina ed in dirigenza, invece, il primo si è limitato ad Ajax e Barcellona – con il rimpianto di non essere chiamato a guidare l’Olanda ad Italia ’90 -, mentre il secondo ha gestito il Maccabi Tel Aviv, i cinesi di Chongqing Dangdai Lifan prima e Shenzen poi, senza considerare il ruolo da CT dell’Ecuador.
Il quesito, però, permane: si è trattato di una volontà dettata dall’istinto o per entrambi determinati impedimenti hanno costretto a tracciare una linea che dettasse un susseguirsi di nuove esperienze in giro per il mondo? La risposta pare vertere sulla seconda delle due opzioni, vuoi per il carattere talvolta fumantino di Johan o per (ancora una volta) il fardello di quel cognome per Jordi Cruijff.
Senza prendere in considerazione la poliedrica appartenenza del terzogenito di Danny e Johan tanto al popolo catalano quanto a quello olandese – ed al basco, visti i ricordi che ha lasciato nelle sue tre stagioni all’Alavés di Vitoria-Gasteiz -, le tappe percorse da Jordi sono come detto il prodotto delle azioni – o della sola presenza, talvolta – della figura paterna.
Esaminando la sua parabola con il Barcellona, la squadra in cui è nato, cresciuto e con cui ha calcato i primi grandi palcoscenici, tutto svanisce a pochi giorni dall’allontanamento di Johan dalla panchina dei catalani. Una strada in salita anche al principio dell’ascesa calcistica, ma che sembrava aver trovato una scorciatoia sulla sponda rossa di Manchester. Dopo aver stregato Ferguson nel suo esordio in Champions League proprio contro lo United, il tecnico scozzese lo ingaggia per portarlo con sé ai Red Devils. Il sogno di Johan traslato nella figura del figlio, vista la sua innata volontà di cimentarsi nel calcio inglese da giocatore. Ma, al contempo, l’ennesima ripercussione sulla carriera del suo frutto più maturo, calcisticamente parlando.
In precedenza era arrivato l’ultimatum nei confronti dell’ex braccio destro di Cruijff, Carles Rexach, che al primo allenamento con la squadra si era visto costretto a gestire la complessa situazione legata a quello che aveva sempre considerato un figlioccio. Onde evitare spiacevoli inconvenienti con la piazza, alla fine Jordi Cruijff venne impiegato nella gara successiva contro il Celta Vigo, contribuendo alla rimonta dei suoi e godendosi una standing ovation da parte del Camp Nou, che in poco tempo si trovava privo di entrambe le generazioni di quella famiglia olandese, ormai adottata dal popolo catalano.
Ma non solo: Jordi fu anche vittima di un errore medico in occasione di un’operazione al menisco da parte del medico sociale del club, il dottor Borrell: il numero 14 del Barça non sarebbe mai potuto essere più lo stesso, con i fastidi al ginocchio che l’avrebbero perseguitato per tutta la carriera.
Quando guardo al passato, conscio dell’eredità lasciata ai posteri dall’uomo Johan Cruijff – non esattamente uguale al calciatore, attenzione -, la lettura della sua autobiografia assume tutto un altro significato. Al di là delle peripezie e delle vedute contrastanti in alcuni frangenti della sua carriera, all’Ajax o al Barcellona, è innegabile il profondo valore della Cruyff Foundation, che nel corso degli anni ha raccolto a sé le esperienze di migliaia di giovani, linfa vitale dello sport e del mondo.
Ne è consapevole proprio colui che ha tratto dal Profeta del Gol quegli insegnamenti che vanno oltre il campo, l’allenamento o le celeberrime 14 Regole di Johan Cruijff. Così, Jordi conclude il racconto, con le parole pronunciate in occasione del memoriale per la scomparsa del padre, nel marzo 2016 a Barcellona:
Amava l’Ajax, il Barcellona e la nazionale olandese, ma la fondazione era la sua creazione prediletta a cui ha dedicato tutta l’energia e l’attenzione nei suoi ultimi anni. Per questo noi, la sua famiglia, faremo di tutto per rispettare i suoi valori e desideri, e per applicarli tutti i giorni. Johan era di tutti ed è stato una fonte di ispirazione per molti. E così lo dobbiamo ricordare.
Dicono che da un grande potere derivino grandi responsabilità, ma credo che in questa accezione si possa sostituire l’aggettivo con il “pesante” di cui sopra. Il fardello di Jordi Cruijff, però, mentre l’ombra di Johan continua ad accompagnarlo, si fa sempre più leggero.