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·7 aprile 2025

Il diritto sportivo minorile: la nuova frontiera della civiltà sportiva

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Articolo a cura dell’Avvocatessa Flavia Tortorella (Diritto ed Economia dello Sport, Professore a.c. in Diritto Privato dello Sport presso la Link Campus University, Of Counsel LP Avvocati Roma) e dell’Avvocatessa Silvia Tortorella (Diritto della Famiglia e dei Minori, titolare presso Studio Legale Cionini e Tortorella).

Con l’entrata in vigore del plesso normativo dedicato all’adozione dei modelli di safeguarding si è inaugurata una nuova epoca per il settore sportivo e per le dinamiche caratterizzanti il sistema. Le Federazioni Sportive Italiane, così come tutti i club professionistici e dilettantistici, hanno dovuto osservare gli adempimenti richiesti dalla normativa statale e sportiva – entro un termine dichiaratamente perentorio – provvedendo all’adozione di specifici modelli di compliance tesi a salvaguardare le posizioni di soggetti ritenuti fragili, primi fra tutti i minori di età.


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I parametri di safeguarding in materia sportiva hanno costituito, dunque, il precipitato di un precipuo percorso richiesto ex lege, che contempla anche la nomina di responsabili dedicati (c.d. Safeguarding Officer) cui viene richiesto di osservare e vigilare, appunto, sulla corretta funzionalità del modello.

L’adempimento di quanto previsto e prescritto dalle norme di cui al D. lgs. n. 39 del 2021 ha costituito e costituisce, peraltro, una massiccia voce di spesa alla luce del connesso investimento economico per i club che vi hanno aderito, un investimento che risulta, altresì, implementato anche dalle ore di formazione obbligatoria quale strumento strettamente connesso al corretto funzionamento dei modelli stessi.

Questi ultimi ricalcano sostanzialmente le indicazioni fornite dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, munitasi anch’essa del relativo comparto dedicato alle politiche di safeguarding (C.U. n. 87/A del 10.12.2024). La centralità delle politiche di safeguarding ha trovato ampia condivisione fra gli addetti ai lavori e si registrano già ad oggi numerosi pronunciamenti giurisprudenziali aventi ad oggetto tanto  l’effettività della tutela apprestata dai modelli quanto la responsabilità dei club che la governano.

Una novella certamente funzionale al concetto di sport modernamente inteso e al riconoscimento costituzionale del diritto allo svolgimento dell’attività sportiva (art. 33 Cost),  che però pone ancor più in risalto un vacuum divenuto incompatibile con tale soglia di sensibilità etica.

E infatti se l’adozione di norme poste a presidio dell’avvertita esigenza di una (maggiore) protezione dei minori nell’ambito dell’attività sportiva si è rivelata un ottimo strumento di gestione per la vigilanza e la prevenzione di dinamiche nocive, non si può, di pari passo, non attuare anche un assetto di giustizia sportiva, processuale e sostanziale, misurato sui medesimi profili di fragilità dei soggetti coinvolti, questa volta lato agente, e cioè allorché a porre in essere la condotta antidoverosa sia, appunto, il soggetto minore il quale va pertanto giudicato secondo norme peculiari. Un diritto sportivo minorile, dunque.

Come noto l’ordinamento penale italiano conosce e riconosce al proprio interno un sistema normativo (disciplinato dal D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, intitolato “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”) atto a fornire all’ autorità giudiziaria minorile, id est  Tribunale per i Minorenni, strumenti che consentano di modellare la disciplina del processo penale ordinario, tale da renderlo compatibile con la tutela della personalità del minore ancora in via di formazione.

I principi che presidiano il diritto penale minorile si ispirano, per questo motivo, ad un concetto di adeguatezza, che impone una analisi dell’ambiente familiare, delle problematiche personali del minore nonché del suo percorso educativo passato od eventualmente in atto. Di non minor valore è il principio di minima offensività con il quale si persegue lo scopo di evitare che il contatto del minore con il sistema penale possa comprometterne lo sviluppo armonico, tanto sotto il profilo della sua personalità quanto in riferimento alla sua immagine sociale.

Ciò comporta l’incentivazione all’accesso di strumenti sanzionatori alternativi in grado di evitare che le decisioni giudiziarie non vadano ad interrompere i processi educativi e formativi in atto. Alla base di tutte queste accortezze vi è ovviamente la importante prospettiva di evitare la auto ed etero svalutazione del minore, ossia una stigmatizzazione che ne lederebbe irrimediabilmente la personalità e la vita futura.

Da ultimo il principio della pena detentiva quale extrema ratio che richiama l’attenzione, per quanto qui di nostro interesse, sulla necessità – allorché si debba sanzionare la condotta di un minore – di ridurre al minimo  l’impatto costrittivo ed afflittivo, di modo che la sanzione massima sia limitata al solo caso in cui vi siano insopprimibili preoccupazioni di difesa sociale altrimenti non tutelabili.

Le Avvocatesse Flavia e Silvia Tortorella

Dalla somma di tali esigenze si è pervenuti dunque al riconoscimento di istituti quali il perdono giudiziale (art. 32 cod. proc. pen. min.), il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 cod. proc. pen. min.), la sospensione del processo con accesso alla messa alla prova (art. 28 cod. proc. pen. min.). All’evidenza la proiezione di questi principi sul diritto sportivo non è più procrastinabile.

Occorre senza dubbio garantire un sistema processuale e sostanziale che riconosca le peculiarità legate alla vita dell’atleta minorenne, il suo attaccamento allo sport quale luogo dell’anima nel quale misurarsi e crescere, superare i propri limiti senza restarne prigioniero.

Ci si domanda quale senso possa avere in un diritto dello sport moderno sanzionare in pari misura, e attraverso un identico procedimento, la medesima condotta di un soggetto adulto e quella di un soggetto minore? Non vi è forse un grave rischio di non reggere più il parametro costituzionale irrinunciabile, di cui all’art. 3 comma II° della Costituzione italiana, e negare all’atleta minorenne quel trattamento differenziato idoneo a concretizzare quella uguaglianza sostanziale cui ogni stato di diritto dovrebbe incessantemente tendere?

E sempre sotto detto profilo, come giustificare la vistosa discrasia esistente tra la presenza di un fitto sistema normativo di tutela dei minori vittime di abusi e/o violenze e, di contro, la totale assenza di norme specifiche per quei minori che di quegli abusi si siano resi responsabili?

In conclusione, sarebbe auspicabile – in un’ottica di necessario accrescimento del sistema giustiziale sportivo e di allineamento con i nuovi strumenti di complianceun intervento legislativo atto ad integrare l’attuale procedimento disciplinare di stampo sportivo mediante l’istituzione di un procedimento speciale riservato ai soggetti minori di età. Il sistema è pronto, se lo siamo anche noi.

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