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·15 ottobre 2023
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Zlatan Ibrahimovic è intervenuto sul palco del Festival dello Sport in corso a Trento, organizzato da La Gazzetta dello Sport, soffermandosi sui più svariati temi che hanno caratterizzato l’incredibile carriera dell’iconico ex fuoriclasse svedese. Queste – riportate da MilanNews.it – le sue dichiarazioni:
Com’era il bambino Zlatan? “Facevo tanti casini, come tutti i bambini. Ero sempre in giro a giocare a calcio. Ero sempre col pallone, dove andavo me lo portavo dietro e giocavo a calcio, anche se tutti mi dicevano che non ero un talento. Era la mia energia, la mia adrenalina. Poi facevo anche cose che non si possono fare, ma si impara e si cresce”.
Le sue origini, sempre con lui: “Diventi più maturo, ha più esperienza. Ora ho due figli. Ma la tua identità è sempre quella. Ma lo fai con eleganza e in un’altra maniera”.
Il paragone con van Basten all’Ajax: “All’inizio era molto difficile, tutti si aspettavano che ero il nuovo van Basten. Ma non ero ancora a quel livello, era la mia prima avventura fuori dalla Svezia. Ero da solo con tanta pressione. È stato un trasferimento record, si aspettavano magie tutti i giorni. Ma non ero pronto, mi pesava quel paragone e non era facile. Mi ha quasi fatto tornare indietro in Svezia. Ma non ho mai mollato, avevo sempre fiducia in me stesso. Ma in alcune situazioni non dipende solo da te, ma piano piano, mentalmente soprattutto, diventavo più forte. Il secondo anno è andato meglio, il terzo anno ho fatto il battesimo a tutti”.
Mino Raiola: “La mia carriera è iniziata con lui. Era il terzo anno all’Ajax. Come ho conosciuto Rino ho fatto l’arrogante, e anche lui. Dopo un po’ ho mollato, perché mi serviva veramente Mino. E dopo tre mesi mi ha portato alla Juventus. Il primo incontro? Eravamo al sushi. Arrivo con una bella macchina, un bell’orologio, una bella giacca. Entro con Mino, lui fa un ordine come se fossimo in 8 persone. Mi fa: “Ci penso io, non preoccuparti”. Parliamo di tante cose e mi tira fuori dei fogli, con i gol e le statistiche degli altri attaccanti: Vieri, Sheva, Inzaghi. Avevano statistiche differenti da Ibracadabra. Le mie statistiche erano: 20 partite, 5 gol. Con queste statistiche dove ti porto, mi ha detto. Io gli ho detto che con altre statistiche anche mia mamma mi vendeva, per questo mi serviva lui per fare il miracolo. Ho conosciuto una persona fantastica, è diventato come un papà e un amico. Un advisor, tutto quanto. Quello che passavo, lo passavo con lui. Ci parlavo tutti i giorni. Siamo cresciuti insieme nelle nostre carriere. Siamo diventati forti insieme, lui è diventato più forte di tutti nella sua categoria ed io nella mia. Poi un’altra cosa su quel pranzo. Mi chiede: “Puoi diventare il più ricco o il più forte del mondo?”. Io rispondo: “Il più forte”. Lui: “Bravo, il più forte diventa il più ricco”. Questo era Mino”.
La malattia di Raiola: “Ero con Mino quasi tutti i giorni nel suo ultimo periodo di vita. Non era facile, quando vedi una persona in difficoltà è difficile. C’era tanta emozione. Volevo togliergli il pensiero fisso della malattia, gli portavo energia e positività invece di parlare della sua malattia. Lui pensava sempre agli altri e non a se stesso. Era sempre dietro i giocatori, venivano sempre prima loro e poi lui. Ed è stato così anche negli ultimi mesi. Metteva me davanti a tutti e non se stesso. Mi ha detto di fare quello che mi rendeva felice. È stato molto forte, era forte”.
Su Fabio Capello: “Lui mi ha detto che mi metteva a posto tirandomi fuori tutto l’Ajax. Voleva che fossi più concreto e diretto in campo, il miglior modo per un attaccante per aiutare la squadra era fare gol. Ogni giorno facevamo lavoro davanti alla porta. Mi nascondevo dietro Thuram e Cannavaro, invece mi vedeva sempre. Abbiamo lavorato per sei mesi così. Anche lui mi paragonava a van Basten. Ha detto che tecnicamente ero meglio di lui, ma i suoi movimenti in area erano migliori. Da lì è iniziato tutto. Trezeguet era intelligente, mi diceva che io potevo prendere il pallone per il campo, fare quello che volevo, e lui mi avrebbe aspettato davanti. All’inizio in Italia tanta adrenalina, volevo dimostrare chi ero. Notavo che mi mancava il gol, mentre Trezeguet faceva sempre gol. Poi ho capito quale deve essere la mentalità dell’attaccante in Italia: bisogna fare gol. In Italia qua devi giocare bene e fare gol. Ho detto quindi a Trezeguet “Ti aspetto anche io avanti adesso” (ride, ndr)”.
Gli scudetti della Juve: “Sono 38, non 36. Perché abbiamo lottato tutti i giorni per tutte le partite e abbiamo fatto tutto in campo. Chi era in quella squadra sa cosa ha fatto: abbiamo dimostrato che eravamo i più forti in Italia. Per questo dico che sono 38”.
Dopo la Juve eri in bilico tra Milan ed Inter: “Mino parlava con tutte e due. Eravamo più vicini al Milan, poi loro dovevano giocare un preliminare per la Champions e mi chiedevano di aspettare per capire la situazione. In quel momento l’Inter ha capito e ha fatto in fretta: hanno chiuso il deal prima del Milan. Mino diceva che il primo che arrivava firmava. E l’Inter lì è arrivata prima”.
Su Balotelli: “Quando un ragazzino ha l’occasione di sfruttare il suo talento… Lui ha avuto tante occasioni, non ne ha presa neanche una. Ce ne sono tanti che vogliono avere solo un’occasione, lui ha perso tutte le occasioni che ha avuto lui”.
Dopo il tacco di Leao in Champions… “No no, non si può neanche paragonare. Se fa gol là è un genio. Solo i geni capiscono cosa devono fare lì. Per questo lui è là e Balotelli è in tribuna”.
All’Inter c’è stato l’Ibra più forte di sempre? “Mi sentivo più forte di quando ero alla Juventus, era una crescita normale. Mi sentivo più completo ma non al massimo. Facevo quello che dovevo fare, aiutare la squadra nel miglior modo possibile. Mancini mi dava fiducia e responsabilità. Poi è arrivato Mourinho, era totalmente differente da Mancini. Ma sentivo che stavo crescendo piano piano per arrivare agli obiettivi”.
Consideravi la squadra intorno a te non all’altezza? “Non credo che era così. Anche la Juve aveva il potenziale per vincere la Champions, ma non ho vinto. L’Inter prima di me non vinceva lo Scudetto da 17 anni, poi l’abbiamo vinto per tre anni di fila. Tanti campioni hanno giocato all’Inter senza vincere lo scudetto. Allora pensavo che se fossi andato lì e avessi vinto sarei entrato nella storia del club. Ho visto squadre vincere la Champions ma non il campionato”.
Cosa ti è piaciuto di Barcellona? “Ho avuto la fortuna di vincere trofei che non ho vinto prima. 2-3 internazionali, 2-3 domestici. Era un sogno andare al Barcellona, tutti parlavano del Barcellona. Pensavo che se potevo giocare lì ero nella squadra migliore del mondo. Quando il Barca mi ha chiamato ero carico, avevo fatto il massimo all’Inter. Volevo crescere ancora di più e provare altre sfide per capire e mettermi alla prova da solo, era una sfida con me stesso. Giocare in un posto in tutta la vita va bene, ma volevo vedere dove potevo arrivare. Nei primi sei mesi a Barcellona bene bene, negli ultimi sei mesi è cambiato il pensiero. In campo non facevo tanto ma in testa diventavo più forte. Devi passare momenti difficili per diventare più forte. Se è sempre wow poi quando arriva la botta non sei pronto per uscire dal momento difficile”.
La semifinale con l’Inter: “La partita non era facile. A Milano abbiamo perso 3-1, ma col VAR ci sarebbe stata un’altra situazione. Ma non sono scuse. Poi in casa abbiamo vinto 1-0. Ma questo è il calcio, momenti belli e momenti brutti. Tutti si aspettavano che potevamo vincere invece abbiamo vinto”.
La tua occasione più grande per vincere la Champions? “Il Barca era troppo forte e dominante, come minimo facevano la semifinale. È stata l’occasione più grande. Ma tutti i club in cui ho giocato potenzialmente potevano vincere la Champions”.
Il mio allenatore fa troppa tattica, cosa faccio? “Devi seguire ma non devi seguire. La tattica possiamo impararla anche dopo, le basi del calcio non puoi impararle dopo: si imparano quando uno è giovane. La tattica si può imparare dopo, non è importante”.
Il suo passaggio al Milan: “Non era un momento facile per me, l’allenatore voleva vendermi a tutti i costi. Poi è arrivato il Gamper contro il Milan, il Milan parlava con Mino per capire che fare. Quando sono venuti a Barcellona, eravamo nel tunnel prima di entrare in campo. Tutti i giocatori del Milan dicevano: “Dopo la partita torni con noi”. Nesta, Pirlo, Ronaldinho, dicevano tutti: “Torni con noi”. Dopo la partita è arrivato Dinho negli spogliatoi, mi ha preso la mano e mi ha detto: “Dai, andiamo a casa”. In queste situazioni non volevo mettere ansia ad Helena. Nel calcio ci sono tante parole, Galliani invece è venuto a casa nostra. Helena non sapeva chi fosse, mi ha chiesto chi è. “È il big boss del Milan”. “E che vuole?”. “Vuole che andiamo al Milan”. E lei: “E cosa aspettiamo allora?”. E alla fine hanno trovato un accordo con il Barcellona. Alla sera siamo andati a cena, Galliani tira fuori la carta di credito ma non funzionava. Era dopo il mio transfer. Allora dico: “È già finito? Pago io”. (ride, ndr)”.
Il passaggio dal Milan al PSG: “Era difficile, questo primo viaggio al Milan mi aveva ridato felicità. Non volevo muovermi dal Milan. Prima di andare in vacanza, so come funziona prima dell’estate, ti arrivano chiamate, ho detto a Galliani: “Per favore posso vederti 5 minuti”. Lui mi ha detto di sì. Gli faccio: “Per favore mi prometti che non mi vendi? Non voglio andare via dal Milan, sono felice e la famiglia sta bene”. “Va bene, non ti preoccupare”. Dopo tre settimane, ero in vacanza, mi chiama Mino. Non rispondo. In un’ora 10 chiamate perse. Capivo che c’era qualcosa che non andava. Rispondo a Mino: “Non voglio andare via, da nessuna parte”. Lui: “È già tutto fatto al PSG”. “PSG? No no, sto bene al Milan”. Hanno venduto me e Thiago Silva in un pacchetto, lui aveva già un accordo. Prima di andare in un club ti immagini come sei in quella maglia, come fai gol in quello stadio. Poi parlavo con Leonardo: “Giochiamo fuori casa in uno stadio da 2mila persone, non mi arriva l’adrenalina”. Lui mi ha detto che qualche partita sarebbe stata così. Su Parigi non c’è tanto da dire. Alla fine dico di sì, però mettevo delle clausole nel contratto per far pensare che fossi scemo e non farmi firmare. Dopo 20 minuti mi dicono ok. Allora sono di parola e ho firmato. Dopo queste richieste nel contratto Mino mi fa: “Ma vuoi anche una biciletta nel contratto”. Ho detto sì. E ho avuto la bici (ride, ndr)”.
Conquistare gli inglesi: “Sono andato in Inghilterra a 35 anni. Volevo cambiare dopo 4 anni al PSG. Tutti parlavano dello United perché Mou andava lì. Mi ha chiamato, ho detto di sì. Lo United è uno dei top 5 al mondo. Chiedevo consigli ad altri, tutti i giocatori mi dicevano no: “Se fai male la allora metti la tua carriera in gioco, tutto il passato viene cancellato”. Ho chiamato 5 giocatori, 5 no. 5 no e un sì, il mio. Vado in Inghilterra. Quando la situazione è così mi carico ancora di più. Preferisco camminare sul fuoco piuttosto che sull’acqua, solo io posso farlo (ride, ndr). Tutti quei no mi stimolavano ancora di più. In Inghilterra tanti mi odiavano, che non facevo mai gol contro squadre inglesi, che ero arrogante. Dopo tre mesi sono diventati tutti miei fan”.
Il suo gol in rovesciata da 35 metri contro l’Inghilterra: “È come la situazione di Leao. Se fa gol là tutto il mondo pensa che solo lui può farlo, o solo lui può pensarlo. Quando ho visto il portiere uscire ho pensato che provavo a fare qualcosa per ingannarlo con un movimento. E poi ho pensato: “O sei un genio o non lo sei”. E poi da lì è tutto esploso. Se invece non ti riesce tutti pensano “Ma cosa fa”, come con Leao”.
Messi in America: “Sono felice per loro, possono tornare a guardare il calcio. Quando sono andato via guardavano il baseball”.
L’ultimo scudetto con il Milan, il più bello di tutti. Hai dato tutto: “È stato lo scudetto da cui ho avuto più soddisfazione. Era una situazione dove la squadra non era favorita, neanche top 4. Erano giocatori che non erano superstar. Non era una squadra in cui era abituato a giocare: ho giocato sempre in squadre favorite. In questo Milan invece era il contrario. Poi non si capiva se vendevano o no, se arrivava un nuovo dirigente o un allenatore nuovo, poi il COVID… Noi eravamo sempre uniti. Abbiamo detto che avremmo fatto passo per passo, un giorno alla volta. Poi chi era pronto mentalmente per fare il sacrificio è rimasto, chi non era pronto è andato via. Poi piano piano si è formato questo gruppo, mai avuto un gruppo così forte di collettivo. Un’atmosfera… Era troppo troppo forte. Non eravamo fenomeni, solo io dai (ride, ndr). Non erano superstar, ma tutti hanno usato la situazione per crescere e far crescere il compagno di fianco. L’anno che abbiamo giocato senza tifosi ci ha aiutato a crescere senza pressione. Avevamo più tempo per arrivare al top. Poi quando siamo arrivati al top hanno fatto tornare il pubblico che ci ha dato un extra boost. Era un gruppo che diventava più forte ogni giorno che passava. Dicevano che avevamo fortuna, bla bla bla, ma alla fine abbiamo chiuso. E quando fai una grande cosa lo vedi e lo senti negli altri. Dopo la partita con il Sassuolo siamo entrati nello spogliatoio e vado in doccia. Due-tre persone piangevano, lo staff piangeva. Da lì capisci cosa hai fatto. Era una cosa in cui nessuno ci credeva. Quando sono tornato ho detto nella prima conferenza che avrei riportato il Milan a vincere: in quel momento ho capito che ci ero riuscito. La soddisfazione è stata differente. Chiedevo quanti avevano giocato in Champions. Nessuno alzava la mano, lo stesso quando ho chiesto chi aveva vinto il trofeo. Quell’anno si sentiva che si poteva vincere. Io ho avuto un infortunio pesante, ma sono rimasto vicino alla squadra. Quando vedi quando abbiamo festeggiato in centro… C’era Tomori che aveva vinto col Chelsea, gli ho detto che vincere qua sarebbe stata un’altra cosa. Mi ha detto che avevo totalmente ragione, questo rimane nella storia per sempre”.
La crescita di Tonali al Milan: “Arrivava da Brescia. Era il suo sogno arrivare al Milan. Il primo anno era troppo tifoso. Gli ho detto: “Basta, non sei più tifoso, sei uno di noi. Qua non servono i tifosi, serve far felice i tifosi”. Poi il secondo anno si è sbloccato e volava, era troppo importante per noi. Già dal Brescia si vedeva che era forte. In tanti non capiscono che giocare in top club è una differenza troppo grande. Altra pressione, altra mentalità, altri obiettivi. Qua se perdi sono il primo che arriva, poi l’allenatore e poi il club. Quando un giocatore non va al massimo non vuole dire che ha perso talento, ma che serve tempo. Poi dipende anche da noi compagni, anche noi dobbiamo aiutare a farlo stare bene e utilizzare le sue qualità. I dirigenti hanno visto una cosa, in una squadra ci sono allenatore e compagni: tutto va insieme. È uno sport collettivo, non individuale”.
Quanto ti ha fatto male vedere Sandro uscire da Coverciano con un avviso di garanzia? “So poco di questa storia. Mai sentito da lui, mai visto in difficoltà e mai visto che stava male. Giudicare prima di sapere non si sa. Poi se è malato di scommesse bisogna aiutare, è come una droga. Purtroppo non lo so, non pensavo… Poi bisogna capire se andava al casinò, anche io sono andato al casinò. Poi se ha fatto scommesse sul calcio da professionista è un’altra storia. Ma se uno gioca a blackjack… ognuno fa quello che vuole con i suoi soldi. Bisogna capire com’è la situazione”.
È meglio Zlatan o Leao? “Zlatan, ma Zlatan ha creato Leao (ride, ndr)”.
Ti ha stupito vedere Maldini uscire dal Milan? “Ho un buon rapporto con Paolo, dal primo giorno che sono arrivato. Era dirigente, ho giocato contro di lui in campo. Dal primo giorno ho conosciuto la persona. Cresceva come dirigente, era la sua prima esperienza. Non era una situazione facile, non si capiva bene come erano le cose. Di queste cose non portava niente nella squadra. Era sempre presente tutti i giorni a Milanello. Comunicava con mister Pioli, con i giocatori. Tutti i giorni era presente. Non so i dettagli per il mercato, c’erano budget limitato. Era un suo problema, il mio problema era in campo. Ha fatto un grande lavoro, abbiamo vinto. Quando riesci a vincere è una cosa collettiva, ognuno ha le sue responsabilità per arrivare. Non è one man show. Mi dispiace quello che è successo, è una bandiera del Milan. Papà, lui, figlio. Mi dispiace. Ma so che nel calcio le cose possono cambiare. Sono felice per lui per quello che ha fatto per il Milan, come calciatore e come dirigente”.
Il rapporto con Lukaku. Ti dispiace che non ci sia stato un altro incontro? “Mi dispiace, molto. Lo conosco, ho giocato un anno con lui. Non era così come quando è successa quella situazione. Non mi aspettavo quell’atteggiamento, lo conosco da Manchester. In Italia ti fanno diventare qualcosa che non sei, colpa vostra, dei giornalisti. Lo avete fatto sentire qualcosa che non è, allora forse lui si sente re di Milano e del campionato. Ma stava facendo bene, ma lì non ho capito. Lui fa le cose per la sua squadra, ma non era da lui. Lui non è un ragazzo cattivo, ma è successa questa cosa. Poi ho detto: “Se giochiamo un’altra partita vediamo che succede”. Non è personale. Mi ha sorpreso, quello che lui ha fatto non è da lui. Quello che ho fatto io sì (ride, ndr)”.
Sul futuro: “Quanto è passato da quando mi sono ritirato? 3-4 mesi? Ho una libertà totalmente differente. Sto facendo cose per me stesso. Non ho un boss che mi dice cosa fare o cosa seguire. Sto prendendo tempo per capire cosa voglio fare. ci sono più offerte ore che quando giocavo. Se entro in qualcosa voglio fare la differenza, essendo me stesso. Non voglio entrare in una situazione come simbolo. Entro, inizio da zero e faccio quello che riesco a fare. Poi ovvio, c’è anche la tua immagine da personaggio. Vediamo cosa succede, qualcosa succede. Ho avuto qualche meeting col Milan. Il boss, l’altro boss. Parliamo. Vediamo dove si arriva. È il momento di conoscerci. Poi se uno può portare qualcosa fa effetto, se non può portarlo non fa effetto. Se mi danno il contratto per continuare a giocare fa effetto. Scherzo (ride, ndr). Vediamo”.
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