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·29 maggio 2025
Heysel, Massimo Raffaeli racconta: «Per un anno non sono riuscito a guardare una partita di calcio. Le strade sono lastricate d’odio, ecco cosa successe quel giorno» – ESCLUSIVA

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·29 maggio 2025
Il 29 maggio è una data impressa nell’anima. La strage dell’Heysel oggi compie 40 anni e ne parliamo con Massimo Raffaeli. Scrittore, critico letterario, juventino, ha tradotto il libro di Pol Vandromme «Le gradinate dell’Heysel – Una morale per il calcio». Un’occasione per partire da un testo letterario e provare a mettere insieme il presente e il passato, nella dolorosa consapevolezza di avere vissuto 40 anni fa qualcosa d’indicibile. La sua intervista esclusiva a Juventusnews24.
Impossibile parlare dell’Heysel senza ricordare dove ci si trovava, senza fare i conti col proprio vissuto. Io avevo 20 anni, aspettavo quella partita con un entusiasmo enorme, dato dall’idea di poter vedere la mia Juve, la squadra in quel momento più forte del mondo, che solo 4 mesi prima a Torino aveva battuto in Liverpool nella Supercoppa europea in una serata di neve indimenticabile. In più, come succede spesso ai tifosi, non vedevo l’ora di cancellare dalla mente la sconfitta di Atene con l’Amburgo. Come dire: hai perso con i più deboli, adesso puoi vincere contro i campioni d’Europa in carica. E, come tutti, rimasi senza parole, quasi inebetito, davanti alla notizia dei morti data da Bruno Pizzul. Tu dov’eri?«Avevo ventotto anni, insegnavo al liceo ed ero juventino, da sempre. Anni prima, passato l’esame di V ginnasio, avevo chiesto a mio padre di portarmi a Belgrado per la finale di Coppa dei Campioni (30 maggio del ’73) ma l’Ajax di Johan Cruyff era troppo più forte della Juve degli imberbi Causio, Bettega e Anastasi e dei vecchi Haller e Altafini: ero ancora troppo ingenuo per disilludermi e per me fu una vera batosta. Ci sarei ricascato nel 1983, quando la finale di Atene con un mediocre Amburgo non venne di fatto giocata dallo squadrone di Rossi, Platini, Boniek e compagni: in un bar di juventini, costernati, sul serio non riuscivo a capacitarmene. La sera dell’Heysel invece ero a casa e non ricordo particolari patemi alla vigilia (sì quella Juve era fortissima, più tosta e spiccia di quella di Atene, nonostante una classe mediamente più bassa: però anche Favero e Briaschi sapevano cavarsela). Ricordo bene l’inquadratura, in tv, prima che Bruno Pizzul cominciasse a parlare: c’era un silenzio strano, gente che vagava per il campo e dei gendarmi a cavallo, una scena spiazzante, surreale che non prometteva nulla di buono. Per un anno almeno non sono riuscito nemmeno a concepire, non dico a guardare, una partita di calcio».
Hai tradotto il libro di Pol Vandromme «Le gradinate dell’Heysel – Una morale per il calcio». Cosa ha di speciale questo testo, decisamente lontano da tanti altri che hanno tenuto viva la memoria del 29 maggio 1985.«Ho scoperto il libro di Pol Vandromme una quindicina di anni fa, per il semplice fatto che Vandromme è un (grande) critico letterario che ha scritto di autori francesi dei quali mi sono occupato a mia volta. Leggendo, mi ha colpito subito la forte originalità del libro, che non è un reportage ma qualcosa che sta a mezzo fra la memoria autobiografica (ma non è chiaro se Vandromme, nativo di Charleroi, abbia assistito direttamente alla partita) e una grande laica preghiera dei morti. É anche una personale riflessione sulle origini e le dinamiche del tifo e specie quello dei cosiddetti ultras, i quali, né innocui né innocenti, a me non hanno mai suscitato nessuna simpatia. Si tratta di un libro singolare, difficile da tradurre perché è scritto in uno stile denso e simbolico ma, appunto, di grande intensità. Era rimasto chiuso in un cassetto, ci ho messo anni e anni a vederlo pubblicato grazie a una poeta, Cristina Babino, che lo ha accolto nella collana di un piccolo editore marchigiano, Vydia. D’altra parte ogni volta che lo avevo proposto, anche a grandi editori, al solo nome dell’Heysel, costoro scappavano. Come fosse una maledizione innominabile o un vero e proprio tabù».
«Ci ripetono che il paese selvaggio è inglese. A me sembra che all’Heysel quello inglese è stato solo il cantone più rabbioso del paese selvaggio»: è uno dei passi che ho trovato più significativi del libro. Non voglio dire che fosse una strage annunciata, ma che in qualche modo il calcio e la società dell’epoca avessero trascurato le possibili conseguenze di anni di violenza negli stadi. Che la morte, insomma, facesse parte dell’orizzonte delle possibilità e ci si convivesse.«Allora tutta la colpa, reale e potenziale, venne data ovviamente ai tifosi inglesi non per caso chiamati hooligans o addirittura animals. La signora Maggie Thatcher colpì il calcio tassandolo (lei ultraliberista) e coartandolo spietatamente fino a buttare fuori dagli stadi le classi subalterne, tramite un enorme rialzo del prezzo dei biglietti. Oggi Sky vende la Premier League come un grande spettacolo popolare ma omette di ricordare che il calcio dal vivo è un privilegio del solo ceto medio, più o meno ripulito. Resta comunque, da noi come da loro, che quando la passione sportiva (è il termine che preferisco a “tifo”) si traduce in sentimento identitario, chiuso e claustrofobico, l’“Altro” non è più un avversario ma diventa un nemico, con tutto ciò che ne consegue. La settimana scorsa, dopo la retrocessione della Sampdoria, a Marassi certi ultras del Genoa, che pure passano tra i gruppi più democratici e solidali, esponevano un enorme striscione che, maledicendo in eterno il nemico doriano, brandiva tranquillamente la parola “odio”. Ecco, le lunghe strade che portano all’Heysel sono lastricate di queste parole, di sentimenti del genere».
Vandromme alimenta in parte l’idea che la partita si sia giocata in nome dello spettacolo. Io ho un’idea diversa, anche perché il carattere dello spettacolo mi sembrava alquanto povero in quella serata. Credo sinceramente che l’impreparazione collettiva fosse talmente elevata da generare la preoccupazione che la strage avrebbe portato a scontri ancora più gravi.«Già dai pieni anni settanta, in Inghilterra come altrove e non esclusa l’Italia, il calcio risentiva allo stadio di forti tensioni sociali e dava l’impressione che venisse abbandonato a sé stesso dalle istituzioni per l’incapacità o la non volontà di interrogare e cogliere il senso di quegli stessi conflitti culturali e sociali di cui i giovanissimi erano i primi portatori. Insomma se ne faceva un problema di ordine pubblico, si deprecava la violenza e la si liquidava come una pratica di individui emarginati e socialmente irrecuperabili. Quanto all’Heysel, sono certo del fatto che l’organizzazione fosse del tutto inadeguata, le strutture fatiscenti e molti addetti collusi, addirittura, con il mercato nero dei biglietti che aveva tollerato si ritrovassero teppisti armati e habitué dello spaccio vicini a famiglie o semplici appassionati. Il processo di Bruxelles, che di fatto mandò assolti tutti i vertici del calcio e delle istituzioni, di una simile rimozione è la prova più scandalosa. Ho anche io l’impressione che Vandromme abbia mitizzato, in qualche modo, la scelta di giocare la partita. É molto più probabile, invece, che non si potesse fare altro. Pur restando discutibile in termini morali quella scelta, che è frutto della disperazione, continua anche oggi a sembrarmi il male minore, preferibile a qualunque altro».
Il libro propone un’idea di calcio personale e molto romantica. Quel che ha fatto l’autore è stato in qualche modo il processo che abbiamo fatto tutti per andare avanti e oltre all’Heysel?«Non è vero, come ha scritto qualcuno, che Vandromme sia un reazionario e dunque un nostalgico del gioco “romantico” o di una volta, le football de jadis, che peraltro chi ha una certa età sa benissimo non è mai esistito. (“I bei tempi non ci sono mai stati” dice il testamento del vecchio pistolero, Henry Fonda, che interpreta un film prodotto da Sergio Leone, Il mio nome è nessuno). Semmai Vandromme, ricostruendo ne Le gradinate dell’Heysel il suo romanzo di giovanissimo giocatore, rivendica l’amore per il calcio e per la squadra della propria città come una grande “passione”: una parola, voglio ricordarlo mentre la sottoscrivo, che associa l’amore a quel tanto di necessario pathos e di umana sofferenza che sempre convivono in chi ama. E infatti la passione per la Juventus è un viatico che ora ci sostiene e ci entusiasma ora invece ci morde e ci affligge».