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Damiano Benzoni·6 ottobre 2022
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Damiano Benzoni·6 ottobre 2022
OneFootball ha parlato con Stefano Sorrentino, ex portiere con 13 stagioni all’attivo in Serie A tra Torino, Palermo e Chievo. Gli abbiamo chiesto dei suoi portieri preferiti in Serie A, delle sue ispirazioni, di come si è trovato tra i pali pur avendo iniziato come attaccante, e dei segreti che lo hanno reso uno dei migliori pararigori del campionato italiano.
Una volta hai detto che per essere portiere ti deve mancare qualche rotella in testa…
È vero, continuo a pensarlo. Forse i portieri di adesso sono un po’ più simili ai giocatori che non ai portieri, giocano molto con i piedi, sono un po’ più “pensanti”, cosa che a me non piace. Faccio sempre questo esempio: il portiere mette mani, testa e faccia nei piedi dell’attaccante mentre sta calciando. Poi, puoi essere stato perfetto 90 minuti e prendi un gol perché sbagli e perdi 1-0, e sei il responsabile di quella sconfitta…
Ci sono stati dei portieri che sono stati di ispirazione per te?
Mio papà era portiere, quindi è chiaro che il paragone è sempre stato con lui. Poi, crescendo, hai come punti di riferimento altri portieri. Dal 1990 al 1994 lui era allenatore dei portieri della Juventus e io giocavo nel settore giovanile. Non mi perdevo neanche un allenamento e il portiere di quelle annate era Angelo Peruzzi. Io dico che ci somigliamo, ma solo come fisico – come portieri siamo il giorno e la notte. Il mio idolo è sempre stato Angelo, ho avuto la fortuna di conoscerlo perché mio padre lo allenava e di entrarci in confidenza.
Sei stato un ottimo pararigori: quale è stato il tuo segreto?
Di segreti non ce ne sono, a parte la fortuna, l’intuizione e lo studio. Io li studiavo tantissimo, anche in modo maniacale, forse anche troppo. Mi facevo preparare una clip dei rigoristi avversari che guardavo al mattino della partita: mi facevo ritagliare il pezzo da quando l’arbitro fischiava il rigore fino a quando non veniva battuto per vedere come si comportavano, per capire anche la psicologia di chi veniva a calciare il rigore.
Guardavo in che porta lo tiravano, in che stadio, il risultato, se arrivavano da un momento positivo della squadra o personale, se rientravano da un infortunio. Tutto, credimi…
A parte lo studio, è una guerra psicologica. In quei frangenti io non avevo nulla da perdere, ma chi doveva tirarlo aveva una responsabilità, quindi cercavo di insinuarmi nella loro debolezza mentale.