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·7 giugno 2024

Eriksson si racconta: «Ritorno all’Olimpico troppo bello. Ecco come sono arrivato alla Lazio e perché sono andato via»

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Eriksson si racconta: «Ritorno all’Olimpico troppo bello. Ecco come sono arrivato alla Lazio e perché sono andato via»

Sven Goran Eriksson ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni ufficiali della Lazio. Tanti i temi toccati dall’ex allenatore biancoceleste. Di seguito tutte le sue dichiarazioni:


LAZIO – SASSUOLO – «Il ritorno all’Olimpico è stato troppo bello. Erano tutti lì, con la gente che cantava. È stato fantastico, io stavo piangendo di felicità. Mi dà un’energia enorme sentire questo calore. Complimenti al pubblico, è stato davvero uno spettacolo».


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LA PRIMA VOLTA A ROMA – «Io sono andato a Roma per la prima volta nella stagione 83/84, quando ci sono stati i quarti di finale di Coppa Uefa tra Roma e Benfica. Mi dicevo che in futuro sarei voluto stare qui in questa città e in questo stadio, l’Olimpico. E ho avuto la fortuna di allenare tutte e due le squadre in questa bellissima città. È chiaro che la Lazio era incredibile, tre anni/tre anni e mezzo in cui era tutto un sogno. Anche per me. Non sapevo di essere l’allenatore che a Roma ha vinto di più in assoluto. È davvero bello. Mi chiamavano ‘perdente di successo’ perché abbiamo spesso mostrato un grande calcio, però sul finale non facevamo l’ultimo passo decisivo per vincere un titolo. Abbiamo vinto lo Scudetto nel 2000, però dovevamo vincerlo anche l’anno prima».

L’ARRIVO ALLA LAZIO – «Io avevo firmato per un’altra società in Inghilterra. Stavo ritornando a Genova, dove stavo. Il giorno dopo mi chiama Cragnotti e mi dice: ‘Vieni’. Io gli ho detto che avevo firmato per un’altra squadra, ma ho fatto di tutto per non onorare quel contratto e alla fine si è risolto tutto. Io sapevo che la Lazio era forte, sapevo che la società era forte e sapevo anche che la Lazio poteva comprare anche qualche nuovo giocatore. Avrei fatto di tutto per andare alla Lazio. Per fortuna è andata così».

ROBERTO MANCINI – «Nel 1984 Falcao il primo giorno alla Roma mi ha detto di comprare Roberto Mancini. Lui era giovane, giocava nella Sampdoria, ma io non l’avevo mai visto giocare. Lui era speciale, un grande giocatore, un fantasista, elegante. In campo era anche allenatore, come Falcao. Si arrabbiava solo con l’arbitro e i compagni se non facevano il loro lavoro. Quando ho firmato per la Sampdoria c’erano Mancini e Vialli. Prima di firmare il contratto però il presidente Mantovani mi ha detto: ‘Eriksson, se non vuole venire lo capisco. Io devo vendere Vialli alla Juve per i soli’. Ma io sono andato lo stesso, abbiamo vinto una coppa e giocato un gran bel calcio. Però lì si comprava un giovane e poi si vendeva. Quando ho avuto la possibilità di andare alla Lazio, l’ho presa subito. E ho detto a Mancini: ‘Andiamo, vieni con me’. Lui voleva un’altra sfida prima di diventare troppo vecchio».

IL RAPPORTO CON CRAGNOTTI – «Cragnotti non mi chiedeva di vincere lo Scudetto il primo anno, però io gli dicevo: ‘Compra Mancini, Mihajlovic e Veron e vinceremo lo Scudetto’. Quando l’abbiamo vinto davvero lo Scudetto, sono andato da Cragnotti e gli ho detto: ‘Presidente, se comprava questi tre il primo anno, ne avremmo vinti tre di Scudetti!’. Lui mi ha guardato e mi ha detto: ‘Sven, uno è sufficiente!’ (ride, ndr.). Io sono arrivato alla Lazio che c’erano tanti bravi giocatori. Era un piacere allenarli. Però per me gli mancava qualcosa, ovvero una grinta incredibile di andare a vincere e anche di avere uno spogliatoio con più positività. C’erano giocatori alla Lazio, che sono stati tanto tempo, che mi dicevano: ‘Giochiamo bene, vinciamo, ma è così fino a Natale, dopo niente’. Io gli dicevo che non si poteva pensare di parlare così. E tutti i giorni era così. Il secondo anno sono andato da Cragnotti e gli ho detto che eravamo troppo negativi. Serviva gente che ci faceva essere più positivi, che alzasse il morale tutti i giorni. L’ultimo giocatore che abbiamo comprato con me in panchina era Attilio Lombardo, un’idea di Mancini. È venuto da me a dirmi di comprarlo. Io gli dicevo che era uno che stava in panchina alla Sampdoria, ma lui mi ha detto di prenderlo non per quello che ha faceva in campo, ma per lo spogliatoio, perché è uno che sorride sempre. Cragnotti era d’accordo».

L’ACQUISTO DI VIERI – «Vieri l’abbiamo preso dall’Atletico Madrid per una somma enorme, penso che era il giocatore più costoso del mondo. Un anno dopo l’abbiamo venduto per ancora più soldi all’Inter. La squadra iniziava a essere forte forte: Conceicao, poi Mihajlovic, che era particolare. Lo Scudetto del ’99 l’abbiamo perso a Firenze con il pareggio per 1-1. È stata una grande delusione, abbiamo dovuto aspettare un altro anno».

LE PARTITE CON L’INTER – «È bello vincere, è facile sapersi comportare dopo una vittoria. Ma dopo le delusioni e le sconfitte devi mantenere la calma come allenatore: urlare o piangere non serve a niente. Perdere è sempre difficile. La squadra non aveva una mentalità vincente all’inizio. Abbiamo vinto la prima Coppa Italia e poi avevamo la finale di Coppa Uefa contro l’Inter. La Coppa Italia l’abbiamo festeggiata per una settimana, poi quando siamo scesi in campo contro l’Inter non avevamo la testa giusta. Anni dopo abbiamo vinto un titolo contro l’Inter di Lippi e lui prima della partita mi ha detto: ‘Sven, lasciami vincere. Tu hai già vinto tutto’. Io gli ho risposto che avevamo fatto una partita importante una settimana prima, non sapevo come avrebbero risposto i giocatori. Ma in quel momento la Lazio era una squadra vincente. Io non gli ho detto niente di speciale, loro avevano capito che la partita si doveva vincere e basta».

DIEGO SIMEONE – «Del 14 maggio del 2000 mi ricordo tante cose, ma soprattutto di Diego Simeone. Lui voleva giocare, nello spogliatoio stava fermo. Se qualcuno provava a parlargli prima della partita, non rispondeva. È stato così fermo per 45 minuti (ride, ndr.)».

SINISA MIHAJLOVIC – «Quando sono arrivato alla Sampdoria, Mihajlovic era un attaccante sinistro. Io però non lo vedevo dribblare, non era rapido. Io l’ho messo come difensore e lui borbottava. Poi una volta, quando erano tutti indisponibili, l’ho messo centrale di difesa e da lì non si muoveva. Lui veniva ad abbracciarmi dopo ogni gol perché la società gli aveva alzato di molto l’ingaggio. Era uno dei migliori difensori centrali del mondo».

LA SQUADRA E LE VITTORIE – «Se uno vede quello che abbiamo fatto negli anni è difficile vincere per qualsiasi squadra 7 titoli in tre anni, non ci sono mai riuscito nella mia carriera. La squadra era così forte che tutti erano in Nazionale. Ognuno di loro poteva dire di essere il più forte, pretendere di giocare, ma non lo facevano. Io non ho fatto un patto, ma sembrava. Loro accettavano la panchina, le sostituzioni, ciò che facevamo in allenamento. Io parlavo con tutto, chiedevo consigli e molti volevano parlarne, ma lavora insieme e con la stessa dedizione. Grazie a loro sono diventati così forti. Lo spogliatoio era meraviglioso, ogni tanto succedeva qualcosa, ma quasi mai».

L’ADDIO E LA NAZIONALE INGLESE – «Spesso ci ho ripensato, pensando di aver sbagliato, ma per noi svedesi il calcio inglese era sempre in televisione, sapevamo più dell’Inghilterra che del calcio svedese. Quando ti viene offerta la Nazionale era difficile dire di no».

UNA PARTITA DA RIGIOCARE – «Valencia è stato molto strano. Sapevo che sarebbe stata difficile, ma non che avremmo perso così. Io non so cosa sia successo, tutto era molto strano. Avevamo uno squadrone, però quando il Valencia ha iniziato a giocare non c’eravamo. Però forse rigiocherei quella contro la Fiorentina, avremmo vinto lo Scudetto».

UN’EMOZIONE DA RIVIVERE – «La prima Coppa Italia, il primo titolo della mia Lazio. Volevamo iniziare con una vittoria e l’abbiamo fatto. La gioia, la felicità dei giocatori, della società e dei tifosi».

I QUATTRO DERBY VINTI – «Abbiamo giocato benissimo quelle partite, ma Zeman ha fatto malissimo. Proponeva sempre gli stessi movimenti in fase offensivi. Un attaccante dietro e un terzino o un centrocampista di andare negli spazi. Io dicevo ai miei terzini di non muoversi. Zeman è un grande uomo e un grande allenatore, ma non cambiava mai niente, proponeva sempre le stesse cose».

IL RITORNO – «Tornare all’Olimpico è stato bellissimo, tutti cantavano il mio nome. La Lazio ha organizzato tutto in modo fantastico. Mando un grande abbraccio a tutti, li ringrazio per lo spettacolo dell’Olimpico e gli faccio un grosso in bocca al lupo per il prossimo campionato».

GIANNI ELSSNER – «Mi invitò in radio e la Lazio vinse. Poi un’altra volta e la Lazio vinse di nuovo. Allora mi propose un patto: fino a quando avremmo vinto sarei dovuto andare lì. Gli dissi che andava bene. Penso che avremmo vinto sei o sette partite di seguito, alla fine non sapevamo di cosa parlare. Mi disse una volta di portare una canzone, ma io non ero capace, ho chiamato mia madre per farmi ricordare una canzone di quando ero piccolo e l’ho cantata, anche se male».

TOP 11 DI FEDELISSIMI – «In porta scelgo Bento, terzini Favalli e Nela, in difesa neanche voglio la lista, vado con Nesta e Mihajlovic. A centrocampo ora si fa dura. Veron dev’essere uno, però prima voglio fare gli attaccanti: Nilsson e Baggio. A centrocampo metto Mancini. Sugli esterni Gullit e Nedved, su di lui non c’è molto di cui parlare. Con questi calciatori gli avversari la palla non la vedono mai».

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