
Zerocinquantuno
·1 maggio 2025
Da Schiavio a Maini, da Perin a Gasperi: quando il calcio ai massimi livelli era un secondo lavoro

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·1 maggio 2025
Il calciatore più forte nella storia del Bologna, Angelo Schiavio (1905-1990), non si arrese mai all’idea di essere pagato per giocare nella squadra della sua città. Solo a fine carriera si sentì di non rifiutare la Fiat Topolino che il presidente Dall’Ara volle consegnargli come premio finale per una vita spesa in rossoblù. Il suo esempio non fu l’unico di quell’epoca, e vale la pena ricordarlo oggi, nel giorno che celebra i lavoratori. Perché anche i calciatori, difficile ammetterlo, lo sono a tutti gli effetti. Nei primi anni di vita del club, numerosi giocatori non bolognesi accettavano di trasferirsi sotto le Due Torri solo in cambio di una professione sicura, da esercitare fuori dagli orari di allenamento. Era la loro polizza sul futuro, in un periodo dove la speranza di vita agonistica era molto più corta di quella attuale. Bernardo Perin (1897-1964), centrocampista offensivo pagato letteralmente 2 lire al Modena, si fece aprire un forno dalle parti di piazza Malpighi: era il 1918, e per dodici anni fu visto incamminarsi alle partite o agli allenamenti uscendo dalla sua bottega col filone sottobraccio. L’attaccante Bruno Maini (1908-1992) era garzone in una falegnameria e si dilettava a giocare nella Vincente, polisportiva amatoriale cittadina, quando fu notato da Hermann Felsner, che a fatica lo convinse a unirsi ai rossoblù. Felice Gasperi (1903-1982), che assieme a Eraldo Monzeglio costituì il muro difensivo del BFC anni Trenta, consumò le scarpe su e giù per via Siepelunga, raccogliendo i panni sporchi della Bologna benestante: era un lavandaio e non se ne vergognò mai. Chi lo riconosceva, carico di vestiti e lenzuola da sciacquare nelle vasche del Savena, sapeva che non c’era niente da ridere. Gasperi prendeva sul serio entrambi i suoi lavori, e proseguì nella sua attività principale (quella di lavandaio, appunto) anche quando la vita gli presentò il conto più salato, la morte del figlio: dopo diciassette stagioni in rossoblù, si dedicò al commercio dei vini, perché non lavorare non era ancora un’opzione per i calciatori in pensione. I calciatori-lavoratori furono poi spazzati via dall’avvento degli stipendi-vitalizio, diventati stipendi-transgenerazionali (nel senso che con lo stipendio di un anno si sistema la progenie e le progenie della progenie). Così, quando il calcio diventò un bancomat milionario, rimasero almeno gli esempi virtuosi di coloro che rifiutarono l’offerta di una grande squadra pur di non lasciare il capoluogo emiliano. Capitò, tra i tanti, al già citato Angelo Schiavio, e in seguito a Mirko Pavinato, Giacomo Bulgarelli, Ezio Pascutti, Gianluca Pagliuca e in tempi più recenti anche a Marco Di Vaio, dopo il suo primo anno da record a Bologna. Ma ci fu anche chi al denaro diede un sonoro e irrevocabile calcione, come Marco Bernacci, capace di rinunciare ad un contratto triennale da mezzo milione di euro l’anno pur di liberarsi del ‘peso’ di giocare lontano da casa. Una storia d’altri tempi, ma in epoca moderna.