
Calcio Africano
·11 ottobre 2019
Breve storia dei rapporti tra Gheddafi e il calcio italiano

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·11 ottobre 2019
Fino al 2004, quando una visita a Tripoli dell’allora premier Silvio Berlusconi lo convinse almeno in apparenza ad un’inversione di rotta, il 7 ottobre di ogni anno Muammar Gheddafi celebrava il Giorno della vendetta libica, fustigando l’Italia con discorsi spesso incendiari incentrati sul suo personale cavallo di battaglia: l’antico e annoso tema dei risarcimenti per i danni relativi alla colonizzazione.
È innegabile che il colonnello abbia coltivato negli anni un sentimento ambiguo verso l’ex colonizzatore, usando il bastone e la carota a seconda del momento storico e delle contingenze politiche, ma questo non gli ha impedito di fare affari con l’Italia, anche attraverso il calcio: ad esempio, tre anni prima dell’embargo alla Libia sancito da una risoluzione dell’Onu, Gheddafi aveva trovato il modo di penetrare il campionato italiano, sponsorizzando l’Atalanta attraverso la Tamoil, una nota compagnia petrolifera olandese rilevata in quel periodo dal governo libico.
Qualche anno più tardi, all’alba del nuovo millennio, la famiglia Gheddafi avrebbe osato anche di più, acquistando il 7.5% del pacchetto azionario della Juventus attraverso la Lafico, una sorta di compagnia per gli investimenti esteri con le mani in pasta anche in altre storiche aziende italiane, dalla Fiat all’Eni: “Siamo entrati nella Juve per sport, per soldi e per amore. Puntiamo al 20% in breve tempo, ma anche a sviluppare il calcio e l’amicizia tra i popoli“, dichiarava entusiasta nel 2002 Saadi Gheddafi alla Gazzetta dello Sport.
Il trasferimento genera grande clamore e il club umbro gli riserva un’accoglienza da re. Lui si presenta alla festa organizzata in suo onore attorniato da un esercito di guardie del corpo, ma è tutto fumo e niente arrosto: gioca solo un quarto d’ora e fa parlare di sé solo quando, dopo essere risultato positivo al nandrolone al termine di un Perugia-Reggina in cui non era nemmeno sceso in campo, viene squalificato per doping.
Il Perugia retrocede in B, ma lui riesce comunque a debuttare, per ironia della sorte contro la Juventus, società di cui era in parte proprietario. La sua esperienza italiana prosegue tra Udinese e Sampdoria, dove arriva grazie ad una specie di partnership tra la Tamoil e la ERG del presidente blucerchiato Garrone, ma Saadi continua a fare notizia soltanto per questioni extra-campo: testimoni oculari narrano di fughe notturne dai ritiri, cene luculliane, bolidi di lusso, e la stampa sportiva si diverte a raccontare gli aneddoti più pruriginosi, come quello della suite presidenziale di un noto hotel di lusso affittata interamente per Dina, l’adorata cagnolina di famiglia.
Solo pochi anni prima in Libia, però, Gheddafi jr era finito al centro di vicende tremendamente più serie. Il 7 Luglio 1996, allo stadio Centrale di Tripoli, si gioca il derby tra Al-Ittihad ed Al-Ahli, ma è anche una sfida all’interno della famiglia Gheddafi: le due squadre della capitale, infatti, sono presiedute rispettivamente da due figli del rais, Mohamed e Saadi.
Il parapiglia si scatena quando l’arbitro assegna un gol palesemente irregolare all’Al-Ahli, la squadra di Saadi. La folla, inferocita per l’accaduto, inizia a cantare cori anti-regime e invade il campo, tentando di aggredire fisicamente il terzogenito del colonnello. Intervengono le forze di sicurezza e fanno un bagno di sangue: alla fine della giornata si contano 8 morti e 38 feriti, ma secondo alcune fonti diplomatiche citate dallo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca, le persone uccise quel giorno sarebbero 25.
Quattro anni più tardi, dopo una controversa sconfitta dell’Al-Ahli Bengasi con l’Al-Ahli Tripoli – la squadra più vicina al regime di Gheddafi – è un oltraggio ad Saadi a far scattare la dura repressione del rais: i tifosi biancorossi l’avevano provocato, vestendo un asino coi colori del Tripoli, con annesso il numero del figlio in bella mostra sul dorso.
Per tutta risposta il colonnello infligge una punizione esemplare alla squadra di Bengasi: senza pensarci due volte, ordina di radere al suolo lo stadio, sospendere il club (i Rossi) da tutte le competizioni e poi riammetterlo in seconda divisione. Non a caso proprio dal più importante centro della Cirenaica, dove sui muri dello stadio comparivano scritte del tipo “Ahli ti amo” e “a morte la dittatura”, sarebbe nata la rivoluzione del 2011.
Articolo apparso originariamente su Nigrizia
Credits Copertina ©Hellosport.it