Inter Milan
·27 Mei 2025
Romanzo di Finale: Road to Munich

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·27 Mei 2025
La settima volta per capire chi siamo. Non è un caso che l’Inter sia il Club italiano con più appeal letterario, musicale e cinematografico. Le sue vicende sportive spesso e volentieri si intrecciano a quelle del Paese, e il contributo culturale dei nerazzurri è sempre stato superiore al comunque congruo palmares. Quando l’Inter vince, fa parlare di sé tutto il mondo.
Alla vigilia della finale di Champions League numero sette della storia del Club, è utile mettere a fuoco i capitoli precedenti.
L’Inter del mago Herrera raggiunge nel 1964 per la prima volta la finale della neonata, o quasi, Coppa dei campioni, che fin lì annovera otto edizioni, cinque delle quali vinte dal Real Madrid. È la squadra leggendaria per eccellenza: Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas, Francisco Gento. Belli, vincenti, imbattibili. Almeno questa è l’impressione che ha un ragazzo di ventun anni che se li trova davanti nel tunnel prima della partita, Sandro Mazzola:
La palla rotola e quello che diventerà il baffo più famoso del calcio italiano si sveglia, eccome. Destro chirurgico pochi minuti prima dell’intervallo, e per i ventimila interisti arrivati in Austria con ogni mezzo inizia la festa, che prosegue con un gol di Milani nella ripresa. Felo accorcia, ma Mazzola completa l’opera con una doppietta. È il trionfo di Angelo Moratti, presidente vecchio stile e insieme modernissimo, di Helenio Herrera, che ha sostanzialmente inventato la figura moderna dell’allenatore, insieme istrione e rigorosissimo pianificatore. Un conducatòr, scriveranno i giornali italiani.
Sono altri tempi e i dubbi di formazione non esistono o quasi, e l’undici interista si impara a memoria, come le poesie di Ungaretti. Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Il capitano è Armando Picchi, che solleva il trofeo. Nella notte del Prater brillano tutti, tranne uno forse. Jair, straordinaria ala destra brasiliana, ha una sola sfortuna: in Nazionale è chiuso da Garrincha, uno dei migliori giocatori di tutti i tempi. Ma all’Inter fa quello che vuole in campo: in quell’edizione di Coppa dei Campioni, Jair segna nei sedicesimi, nei quarti, andata e ritorno, in semifinale. Ma la finale la sbaglia, è forse il nerazzurro meno in forma. Dovrà farsi perdonare.
Il passaggio del testimone intanto è completato. Dal grande Real alla grande Inter. Ma se vincere è difficile, ripetersi è difficilissimo.
L’edizione successiva è un romanzo. L’Inter passa abbastanza agevolmente i primi turni. In semifinale c’è il Liverpool che all’andata in casa vince con un netto tre a uno. L’usanza dell’epoca è suonare a tutto volume successi pop a fine gara, e Anfield al fischio finale i supporter dei reds intonano a pieni polmoni “Oh when the saints go marching in”, dedicata al loro attaccante Ian St.John.
A Sandro Mazzola quella canzone resta in testa. Torna in Italia, compra il disco, lo porta allo speaker di San Siro. “Mettila al fischio finale”, gli intima. L’Inter gioca il match perfetto: tre a zero, tre gol in cui c’è tutta un’epopea. La furbizia di Joaquin Peirò, la classe di Mario Corso, la potenza inumana di Giacinto Facchetti. Tre a zero, verdetto ribaltato, è di nuovo finale. La storia è pronta a ripetersi, e la canzone risuona beffarda a San Siro.
Ad Anfield sono scaramantici e decidono di cambiare canzone. Nell’estate precedente Gerry and the Pacemakers, una band di Liverpool, aveva reinciso un vecchio successo degli anni Quaranta. “You’ll Never walk alone”. Da quelle parti, non ne faranno più a meno.
Ci sono date scritte nel destino. Il 27 maggio del 1964 è un mercoledì, il 27 maggio del 1965 è un giovedì. Ciò che non cambia è che l’Inter gioca la finale di Coppa dei Campioni.
Identica anche la tipologia di avversario: una squadra leggendaria plurivincitrice della coppa. Stavolta tocca al Benfica di Eusebio, la Pantera Nera, uno dei migliori calciatori della storia. L’esodo del popolo nerazzurro non è necessario: basta prendere il tram. La finale è a San Siro, ancora privo di copertura, e gli ottantamila presenti prendono volentieri la pioggia: sotto il diluvio l’Inter gioca un’altra finale. Il campo è pesantissimo, la palla fa fatica a rimbalzare. La tecnica dei portoghesi è limitata dal terreno, l’Inter è forse un po’ bloccata in campo dalla voglia di vincere davanti ai propri tifosi. La decideranno, come spesso succede, gli episodi. È sufficiente un tiro, un po’ sporco, prima della fine del primo tempo. La palla schizza via dalle mani del disperato Costa Pereira, portiere dei portoghesi, e finisce in fondo alla rete. A calciare è stato il numero sette dell’Inter, il brasiliano che dodici mesi esatti prima aveva giocato una finale un filo sottotono: Jair.
Nella morra cinese europea, la Freccia Nera batte la Pantera Nera. Uno a zero.
L’undici campione: fate Bedin per Tagnin, un cambio quasi metrico, e Peirò per Milani.
Per il resto, copia e incolla dall’anno precedente. Ancora loro: Sarti Burgnich Facchetti… Questa volta la litania la conoscono tutti.
Un altro successo in Coppa Campioni contro la squadra più forte del mondo: il destino interista ancora una volta mantiene la sua natura. Non è quella di vincere sempre, ma, quando si vince, si entra nella storia dalla porta principale.
E sono ancora loro, a riprovarci dopo lo scudetto della stella, a due anni dall’ultima finale. Stavolta la data di maggio è il 25 e la strada per arrivare alla gloria passa anche dai quarti col Real Madrid. A Lisbona c’è da fronteggiare il Celtic Glasgow, meno blasonata ma agguerritissima: apre Mazzola su rigore e sembra fatta, ma nel secondo tempo Gemmell e Chalmers ribaltano il tavolo. La coppa va in Scozia, l’Inter stavolta deve arrendersi.
La vendetta sugli scozzesi arriva cinque anni dopo: in semifinale l’Inter regola il Celtic ai calci di rigore. Di fronte trova gli olandesi dell’Ajax di Johan Crujiff.
La squadra sta cambiando, ma qualche interprete arriva ancora dalla vecchia band. Accanto alle nuove stelle Bordon, Bellugi, Oriali e Boninsegna ci sono ancora Facchetti, Burgnich, Jair, Bedin e Mazzola.
Si gioca a Rotterdam, ulteriore vantaggio per l’Ajax di Kovacs che predica il calcio totale: niente ruoli fissi, attaccanti che difendono, difensori che si trovano in area avversaria. Principi di gioco che si rivedranno più avanti in questa Coppa. L’Inter è motivata e forte, ma Johann Crujiff è semplicemente fuori scala. Due a zero per i lanceri che si ripetono rivincendo la Coppa dei Campioni. Per l’Inter si chiude un ciclo europeo e per attendere una finale bisognerà aspettare. Nel frattempo l’Inter si consola con la Coppa Uefa, conquistata tre volte negli anni 90 di cui una finale, indimenticabile, al Parco Dei Principi, stadio del Paris Saint Germain, contro la Lazio. È trionfo nerazzurro a Parigi.
Riaffacciarsi alla soglia della storia ovviamente dal portone principale. Ci vogliono dodici anni perché l’Inter torni in una finale europea, trentotto dall’ultima in Champions. Di fronte c’è il Bayern Monaco, una corazzata anche se non la squadra più forte del mondo.
Quella, l’Inter l’ha eliminata in semifinale, e ve lo abbiamo già raccontato. Tre a uno a San Siro, dolce zero a uno on Catalonia. Ora tra l’Inter e la coppa c’è soltanto il Bayern Monaco. La finale è a Madrid.
“Per noi un sogno, per loro un’ossessione”, ghignò beffardo Josè Mourinho nella conferenza stampa prima della sfida coi catalani. Il sogno resta vivo al Santiago Bernabeu, ma bisogna fare i conti col Bayern Monaco e le sue stelle.
Arjen Robben intanto, ala destra micidiale che ha un movimento immarcabile: parte da destra e con il mancino converge e calcia a giro sul secondo palo. Vi ricorda qualcuno?
Ribery, il suo alter ego sulla fascia opposta non gioca, ma ci sono comunque Thomas Muller, Bastian Schweinsteiger, Philip Lahm. L’Inter però è una squadra in missione, e l’uomo del destino sembra preannunciato.
Diego Milito ha trent’anni e gioca la Champions League per la prima volta. Ha trascorso la sua carriera professionistica quasi perfettamente divisa in tre club. Racing di Avellaneda, squadra della città che gli ha dato i natali, e poi Genoa con un intermezzo nel Real Saragozza. Il curriculum internazionale è sottile: due presenze in Coppa UEFA, qualche sporadica apparizione in nazionale. L’Inter lo acquista per il campionato, si pensa, ed effettivamente in Serie A fa da subito la differenza. In Champions League non sembra avere la cilindrata: un solo gol nel girone, seppure decisivo per la qualificazione nel gelo di Kiev. Peri l resto tanto lavoro oscuro per la squadra. Poi arriva il dentro o fuori e Milito switcha modalità. Sembra Anton Chigurh, lo straordinario personaggio interpretato da Javier Bardem in Non è un Paese per vecchi dei fratelli Coen. Occhi di ghiaccio e mira infallibile. Inter Chelsea, pronti via: mette a sedere John Terry, non proprio il primo che passa, e segna l’uno a zero. Si ripete ai quarti: il gol che doma il CSKA a San Siro è un prodigio di coordinazione in velocità. Il capolavoro però lo esegue con il Barcellona, e non parliamo del gol del tre a uno, solo in apparenza facile. Di tutta la partita dove tiene in scacco la difesa avversaria, fornisce due assist a Sneijder e Maicon, viene fermato un paio di volte in fuorigioco più che dubbio. Da figurante a protagonista, e manca ancora l’incoronazione finale. A Madrid è tutto scritto fin dal riscaldamento.
L’Inter scende in campo con la partita già vinta mentalmente. Il primo gol è un capolavoro per la sua linearità: Julio Cesar- Milito- Sneijder – Milito. Otto secondi. Undici tocchi di palla complessivi. Novantasei metri percorsi dal pallone dal rilancio di Julio Cesar, più per liberarsi dal pressing avversario che per ribaltare effettivamente l’azione, alla rete che si gonfia. Il minuto è il trentacinque, non troppo presto e non troppo tardi. Abbastanza per mandare gli avversari all’intervallo con l’umore peggiorato. La ripresa è scritta. Minuto venticinque, ancora Diego Milito, quarantasei anni dopo Mazzola un’altra doppietta riporta l’Inter in vetta all’Europa. È l’Inter dall’anima argentina, Zanetti Samuel Cambiasso oltre al bomber dagli occhi tristi, e dal cuore brasiliano, Julio Cesar, Lucio, Maicon. E poi la classe e la disponibilità di Samuel Eto’o, che per vincere la terza Champions della sua carriera si mette a fare anche il terzino, le magie di Wesley Sneijder, quell’anno degno erede di Luisito Suarez per la perfezione dei suoi lanci, la grinta di Marco Materazzi, l’esperienza di Cristian Chivu, le geometrie di Thiago Motta, la voglia di Dejan Stankovic, la capacità di sparigliare le carte di Goran Pandev, che in finale sfiora il clamoroso acuto personale. Persino un pizzico di follia di Mario Balotelli serve per centrare il traguardo. Il popolo interista sogna, Massimo Moratti eguaglia il padre Angelo e riporta a Milano la Champions League, ultima italiana al conteggio attuale a centrare il traguardo.
La squadra torna a San Siro con la Coppa quando è già mattina e il 23 maggio 2010 migliaia di interisti vivono l’alba più bella della loro vita.
Istanbul, tredici anni dopo. L’Inter torna in finale e lo fa senza negarsi niente. Si parte con un girone non di ferro, di acciaio temprato. Barcellona e Bayern Monaco per blasone, palmares, fatturato e giocatori sono le due candidate naturali ad un posto negli ottavi di finale. L’Inter non è troppo d’accordo però e ancora una volta manda in tilt i blaugrana strappando quattro punti su sei, che la portano agli ottavi. Qui il Porto di Conceicao è un osso duro, lo è meno invece il Benfica ai quarti, dove l’Inter si guadagna il diritto alla vendetta: Euroderby, vent’anni dopo la prima volta, di nuovo in semifinale. LE due partite praticamente neanche iniziano: sono un monologo interista, con la squadra di Inzaghi che rischia di chiudere la pratica in venti minuti scarsi nella gara di andata. Solo il palo colpito da Calhanoglu tiene in vita i rossoneri, che però non si avvicinano mai neppure a riaprire la qualificazione, chiusa al ritorno da Lautaro Martinez, che si tuffa in mezzo al suo popolo.
È finale, e di fronte c’è il Manchester City, che ha regolato la propria semifinale addirittura in maniera più netta. Uno a uno all’andata, quattro a zero al ritorno. L’avversario? Un certo Real Madrid. L’Inter è spacciata, dicono giornalisti e addetti ai lavori, e invece a sorpresa all’Atarurk la squadra di Inzaghi ci prova eccome. Primo tempo dove il team di Guardiola fa qualcosa in più, ripresa che si apre con l’Inter più convinta, ma l’occasione di Lautaro trova Ederson attento. Il City passa con Rodri, poi è monologo nerazzurro. Lukaku e Dimarco hanno occasioni colossali, l’ultima palla della partita ce l’ha Gosens che quasi trova il pari in pieno recupero. Il miracolo non accade stavolta, e il trofeo lo sollevano gli inglesi. Per tutti quei chilometri che ho fatto per te, grida il coro simbolo di quella stagione, e chissà quanti dovremo farne ancora prima di tornare in finale, si chiedono i tifosi dell’Inter.
La risposta è tanti, ma non troppi, perché due anni dopo l’Inter è ancora qui. Ci arriva passando di nuovo sopra Bayern e Barcellona, ci arriva con un miracolo che questa volta è arrivato davvero. Il gol di Acerbi a pochi secondi dalla fine di una partita destinata all’eternità è un momento che ha cambiato la storia del Club e ridato vita ai tifosi dell’Inter che ora hanno l’ultimo ostacolo, per certi versi il più duro. Il Paris Saint Germain, o PSG o Parìs come da recente rebranding, Il club di Luis Enrique solo tre stagioni fa aveva un tridente mediaticamente irresistibile: Messi, Neymar, Mbappè. Il francese è stato l’ultimo a partire, direzione Madrid, e il tecnico spagnolo ha potuto dare forma al suo calcio, plasmando una squadra a sua immagine: tecnica, sfrontata, ambiziosa, guidata da capitan Marquinhos, alla stagione numero dodici sotto la torre Eiffel. L’Inter però ha tutto per crederci stavolta. E l’uomo del destino potrebbe essere proprio colui che ha segnato in tutti i turni ad eliminazione diretta sin qui. Indossa il numero dieci sulla schiena e la fascia di capitano al braccio, e in semifinale a San Siro ha fatto qualcosa di mai visto prima sui campi di calcio, giocando una partita sostanzialmente da infortunato. Tabellino: gol e rigore procurato.
L’Inter è pronta. Stavolta il coro dei tifosi ha una melodia diversa, e risuona soltanto prima e dopo le partite. Vinci la Champions League, e noi torniamo a fare festa.
Il popolo nerazzurro è pronto a riversarsi su Monaco.