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·26 Juni 2025
Juventus Under 16 campione d’Italia, mister Grauso: «Me lo son sempre sentito, lo dissi a Scaglia… Scudetto che aprirà le porte ad altre vittorie, vi racconto cosa c’è dietro questo gruppo» – ESCLUSIVA

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·26 Juni 2025
(hanno contribuito Nicolò Corradino e Fabio Zaccaria) – Dopo otto anni, lo Scudetto torna a Vinovo, e lo fa grazie a una squadra che ha saputo andare oltre il semplice concetto di vittoria. La Juventus Under 16 ha riscritto la propria storia, regalando al settore giovanile bianconero una stagione memorabile. Dalla partenza con il freno a mano e due pareggi, poi una cavalcata inarrestabile che ha portato al dominio nel girone, chiuso al primo posto con quattro giornate d’anticipo, e infine una fase finale da grande squadra. Più che una somma di talenti, questa Juve è stata un’autentica squadra, cresciuta giorno dopo giorno sotto la guida di Claudio Grauso, in bianconero dal 2020, e di uno staff che ha lasciato il segno. Juventusnews24 ha intervistato in esclusiva il mister bianconero per raccontare tutti i retroscena di un gruppo che ha scritto una pagina importante e che, ne siamo certi, ha ancora molto da raccontare.
Cosa ha trovato di speciale in questo gruppo di ragazzi? Come è riuscito a plasmarli fino a portarli a diventare campioni? In quali aspetti li ha visti crescere maggiormente, dal suo arrivo fino alla vittoria finale?«Questa è già una domanda interessante, perché come ho visto i ragazzi all’inizio non è uguale a come hanno terminato la stagione. Sapevo già che fossero un bel gruppo, visto che lo scorso anno li ho visti da vicino perché giocavano sempre prima di noi e quindi almeno i primi tempi li ho visti tutti. Quando ho preso questo gruppo però ho trovato una squadra che non era una squadra: tante individualità forti, però che non riuscivano a connettersi tra di loro all’interno del gioco. Chi pensava solo alla fase offensiva senza preoccuparsi di sacrificarsi. Proprio l’Under 16 di per sé è l’annata magari delle cavolate tra virgolette: quando arrivano in Under 15 ci sono le deroghe, sono un po’ tutti timidi, in Under 16 invece si pensa già di essere grandi, si alza la cresta. L’inizio di stagione è stato complicato su due fronti: cercare di creare qualcosa in campo e tenerli a bada fuori dal campo. Poi però è stato veramente un attimo, i primi due mesi della stagione. Pian piano è stato un crescendo, tutto si è sistemato in campo e fuori. Ci sono delle grandi individualità, ci sono tanti ragazzi che possono avere un grande futuro ma fondamentalmente abbiamo vinto perché siamo riusciti a creare quel senso di squadra che tante volte alla Juve non è così facile creare».
La stagione è iniziata con due pareggi e la sua assenza in panchina per squalifica. Poi la svolta: due vittorie consecutive, l’unica sconfitta contro il Bologna, e infine una lunga striscia positiva di 19 risultati utili. Su cosa ha lavorato, in particolare a livello mentale, per costruire questa continuità?«Dalla sconfitta di Bologna in poi abbiamo cercato di far capire ai ragazzi su cosa dovessero puntare. Loro pensavano di essere forti tecnicamente ma io dicevo sempre ‘Come facciamo ad essere forti tecnicamente se ogni due passaggi ne sbagliamo uno?’. Vuole dire che non dobbiamo puntare su quello. Abbiamo dei giocatori forti tecnicamente, ma non siamo una squadra tecnica. Dobbiamo correre di più e alzare l’aggressività. Abbiamo lavorato sulle distanze tra i singoli giocatori, sulle distanze tra i reparti, il fatto di guardarsi. Tra l’Under 15 e l’Under 16 cambia il fatto di dover leggere un po’ di più la partita e leggere la connessione tra compagni. Non abbiamo un modo di giocare con schemi fissi: in campo sono liberi, all’interno di una cosa logica. Abbiamo alzato la competitività attraverso un torneo a crocette, in cui chi vinceva le varie partite degli allenamenti e i vari tornei in allenamento vinceva delle crocette a cui venivano associati dei premi alla fine dei due mesi. Tutto questo ha contribuito ad alzare il fatto che loro volessero competere, che iniziassero ad essere connessi tra loro. Io parlo tanto a bordocampo ma uno dei miei obiettivi è arrivare a fine stagione e, togliendomi dalla panchina, vedere la squadra che gioca lo stesso. Io dico di sì, questa è la cosa che mi rende più orgoglioso».
Miglior attacco dei gironi, seconda miglior difesa con sole 23 reti subite, al pari del Modena e dietro solo alla Roma. La vittoria è passata anche dall’equilibrio della squadra. Su cosa avete lavorato di più durante l’anno per raggiungere questa solidità?«A me non piace il giocatore che sa fare solo una cosa. Chi si accontenta di saper fare solo una cosa è destinato ad esaurire il suo percorso. Anche se sei un giocatore di talento ti devi sacrificare. Abbiamo dato alcuni concetti di fase offensiva, ma sono loro poi a dover ragionare. Chiaro che poi c’è del talento, ci sono delle qualità individuali. Tu puoi portare la palla in una certa zona ma poi c’è l’uno contro uno: se non hai un giocatore bravo nell’uno contro uno tutto quello che hai fatto per portare il pallone lì non si concretizza. A livello offensivo abbiamo avuto la media di 3 gol a partita in stagione, a livello difensivo un gol subito. La finale è infatti lo specchio dell’intera stagione: in fase difensiva siamo cresciuti tanti, abbiamo cercato di sviluppare competenza a livello di lettura. Abbiamo lavorato tantissimo sul tenere la linea difensiva alta, dando dei concetti. I ragazzi hanno ascoltato: nel fare si sono ritrovati e hanno acquisito. Anche l’anno prossimo in Under 17, se non sarò più io l’allenatore, sono convinto che loro alla prima partita faranno il fuorigioco perché gli è entrato dentro».
Ha parlato della finale ma anche la semifinale contro la Roma si presentava come la sfida più difficile dell’anno. Un anno fa questo gruppo fu eliminato proprio dai giallorossi nei quarti. Quest’anno, invece, è sembrata emergere una maggiore consapevolezza di poter arrivare fino in fondo. È stato così?«Su questa cosa abbiamo sempre battuto. L’anno scorso sono stati sfortunati perché sono usciti nella doppia sfida con la Roma facendo lo stesso numero di gol, solo per un peggior piazzamento sono stati eliminati, avendo anche tanti giocatori di talento infortunati. Quest’anno abbiamo preso la loro motivazione e gliel’abbiamo fatta visualizzare: erano loro che volevano questo, li ho semplicemente resi consapevoli di cosa volessero e di cosa servisse per ottenerlo. Abbiamo fatto solo questo, ma la motivazione ce l’hanno sempre avuta. Forse non sapevano come canalizzarla. Non ho avuto problemi nel motivarli. In semifinale abbiamo fatto giocare Salvai titolare al ritorno, anche lui di grande prospettiva, ma non abbiamo mai avuto dubbi. La squadra non doveva aver paura in quel momento se avessimo tanti giocatori fuori: eravamo arrivati a un livello dove anche chi aveva giocato di meno poteva dare qualcosa. Faceva parte del gruppo, aveva gli stessi concetti degli altri e la stessa voglia di vincere. Non ero per nulla preoccupato».
A livello personale, invece, che emozione le ha lasciato questo Scudetto e l’orgoglio anche di aver riportato un trofeo nel settore giovanile della Juventus?«Per me è stato emozionante. Io una caratteristica positiva che avevo da giocatore ce l’ho anche da allenatore: riesco a vedere prima quello che succederà. In campo non avevo grande fisicità, sono alto 1.70, non avevo grande tecnica, ma sono arrivato in Serie A perché riuscivo a capire prima degli altri quello che sarebbe successo. Anche nell’intuire in quale squadra dovevo andare, vedevo prima dove c’era qualcosa di positivo. Qualche anno fa c’era Massimiliano Scaglia, non ero ancora allenatore ma vice, e gli avevo detto ‘Non so perché ma mi sento che il giorno in cui avrò una squadra vincerò lo Scudetto’. Me lo sono sempre sentito. Poi Scaglia per fortuna mi ha dato l’opportunità di avere una squadra e Sbravati mi ha dato l’opportunità quest’anno di poter continuare. Però me lo sentivo, non so perché. All’inizio ero un po’ preoccupato, ma poi è cambiato ad un certo punto della stagione. La società ci è stata tanto vicino, nel finale ero io a tranquillizzare tutti dicendo ‘Guardate che ce la facciamo, non vi preoccupate’. Sono quelle cose magiche, come se tu lo chiedessi a chi ha vinto il Mondiale nel 2006, se lo sentiva… Poi deve incastrarsi tutto bene, magari anche l’Under 15 quest’anno aveva questa sensazione ma è uscita prendendo tre pali e due traverse… C’era magia».
Ho una curiosità sul ruolo dell’allenatore per i ragazzi di questa età: oltre ad aiutarli nel percorso di crescita in campo, assume un valore importantissimo anche la sua guida fuori dal campo, per una maturazione totale. Ha quindi questo duplice compito? Se può spiegarcelo meglio…«Io e il mio staff siamo stati allineati fin da subito. Abbiamo cercato di abituare i ragazzi al dialogo: anche per la cosa peggiore che potessero pensare, dovevano parlarne. Quindi si sono sentiti liberi di parlare di ogni cosa, per esempio su cosa pensassi io dei tatuaggi. Non c’è mai stato un confronto su livelli diversi, io dico e tu esegui. Mai. Sia in campo sia nell’extra-campo c’è stato un buon dialogo, e questo ha favorito il fatto che i ragazzi si aprissero. Accettavano di più il nostro intervento, piuttosto che essere sempre autoritari. Abbiamo insegnato tanto in campo ma le parole spese per l’extra-campo sono state infinite. Il ritardo, l’attenzione, sono aspetti su cui abbiamo battuto tantissimo».
Spostiamoci sui singoli mister. Abbiamo visto giocatori come Rigo e Del Fabro partire da terzini e poi essere impiegati anche a centrocampo. Quanto è importante, soprattutto a questa età, far sperimentare ai ragazzi ruoli diversi, considerando l’evoluzione del calcio moderno che valorizza sempre di più le funzioni rispetto alle posizioni fisse?«Quello sicuro, ma nella metodologia dell’allenamento – soprattutto nella prima parte di campionato – mi piace fare esercitazioni scorporate di concetto. Non specifiche del ruolo quindi. Lo smarcamento ad esempio, lo fa il terzino, lo fa il difensore centrale, lo fa l’attaccante. C’è per tutti. Un giocatore che si sa smarcare, un giocatore che sa dribblare, lo sa fare in tutte le zone del campo. Allenarli nel saper fare tante cose li aiuta nel saper fare tanti ruoli. Poi ripeto, non abbiamo un modo di allenare su schemi: la capacità di trovare gli spazi, dove devo smarcarmi, come mettermi col corpo, come fare l’uno contro uno, quando giocare di prima o fare 10 tocchi. È il giocatore che deve capire quando dare la palla. In questo i ragazzi hanno fatto un bel percorso e sono diventati giocatori evoluti. Abbiamo e hanno fatto un bel percorso».
Nella finale ha colpito anche l’ingresso a inizio secondo tempo di Elimoghale, reduce da un’annata importante tra Under 17, nonostante sia un 2009, e protagonista con l’Italia all’Europeo. Come valuta la sua stagione? Lo considera già pronto per il salto successivo?«Lui faceva parte della rosa dell’Under 17 ma è molto legato ai 2009, con cui è cresciuto fin da bambino. Lo abbiamo avuto per 60′ in campo a Parma perché stava rientrando da un infortunio e aveva bisogno di avere minutaggio, mentre noi avevamo due giocatori squalificati. Ha giocato benissimo sotto il profilo dell’atteggiamento e non è così scontato che ci scende di categoria lo faccia con l’attitudine giusta. In finale era a disposizione ma ho deciso di farlo partire fuori: è un giocatore che fa la differenza, ne ho parlato con lui e mi sentivo di dare un valore a quei ragazzi che avevano portato la squadra in finale e meritavano di cominciare la partita. Lui ha capito, è stato bravissimo quando è entrato. Può fare una carriera incredibile: ti fa la giocata, ti fa le cose funamboliche, a patto che siano concrete, non scorporate dal gioco semplicemente per l’estetica».
Impossibile non citare la prestazione di Thomas Corigliano in finale: un assist perfetto e una punizione magistrale all’incrocio. Oltre a essere il leader tecnico della squadra, ha saputo essere decisivo nei momenti chiave. Che valore di leadership hanno avuto lui e Rocchetti all’interno del gruppo?«Thomas è un ragazzo umilissimo, sa ascoltare, ha cercato di mettere in pratica i consigli che gli abbiamo dato durante la stagione. Anche in fase difensiva si è sacrificato, essendo comunque un giocatore di talento. Lui è un leader silenzioso. Lo scorso anno era lui il capitano, ma a me anche nel settore giovanile piace che chi indossa la fascia sia l’espressione della volontà del gruppo. A inizio stagione ho fatto una votazione su chi dovesse esserlo ed è uscito Rocchetti, perché effettivamente a livello di leadership vocale, di presenza, probabilmente lo è di più. Ma a livello tecnico è lui il leader, perché quando la partita si mette male e ci sono dei problemi in campo la palla arriva a Thomas. I compagni lo cercano. Ha fatto un bel percorso ed è un altro come tanti compagni di squadra che può fare tanto nel mondo del calcio. Corigliano a inizio stagione non si smarcava benissimo, si fidava della sua capacità tecnica e quindi non si preparava. Quando poi vai a giocare e ti confronti con difensori di Serie A, se non ti prepari bene con lo smarcamento diventa più complicato. Se a questa preparazione ci metti vicino le sue abilità tecniche diventa un giocatore importante. Lui ha migliorato tanti aspetti durante la stagione».
Anche Paonessa ha un gran futuro davanti, secondo lei?«Secondo me in tanti possono fare un bel percorso. Riccardo è un giocatore caratteriale: a differenza di altri, fa più fatica ad ascoltare. A me piace allenare questi calciatori, perché se è vero che durante la settimana magari fai più fatica a comunicare, o devi scegliere il momento giusto in cui farlo, quando la partita diventa complicata e c’è bisogno di combattere sono quei giocatori che poi ti porti in guerra. Le due facce della medaglia. Fa gol, è cattivo, ha forza nelle gambe, esplosivo, calcia bene di destro e di sinistro, vede la porta. Se arriverà ad alti livelli ci arriverà principalmente per l’aspetto caratteriale».
A centrocampo poi spicca un cognome… Marchisio. Quali consigli gli ha dato per il suo ruolo e c’è qualche aspetto che lo fa assomigliare a papà Claudio?«Non sono paragonabili per il momento per quanto siano identici nella fisionomia. Noi ci ricordiamo Claudio in Serie A e Davide sta ancora facendo il percorso di formazione. Lui a inizio stagione era un certo tipo di giocatore: doveva sviluppare ancora fisicità, potenza, aveva un deficit di forza. Tecnicamente era già bravo ma non sapeva di preciso come essere efficace all’interno del gioco. È cresciuto in tante cose, come ad esempio in fase difensiva. È già migliorato tanto ma può ancora migliorare sul capire quando giocare e quando tenere la palla. Essendo bravo tecnicamente è molto innamorato della palla, tende a fare tanti tocchi perdendo l’attimo della giocata. Questa cosa l’ha migliorata molto già. Ha capacità di inserimento, ha capacità balistiche, di tiro, mette i compagni in porta. È migliorato tantissimo in fase di non possesso, quando uscire in pressione, quando aspettare, quando uscire, l’indirizzamento».
Ora che il tricolore è cucito sulla maglia, cosa si porta dentro da quest’annata? E cosa vuole trasmettere ai ragazzi come eredità di questo percorso?«Mi porto dentro questo legame che si crea. Questa magia, questa simbiosi che provavo anche quando giocavo. Si crea questa unione tra giocatori, staff che spero che in futuro si possa ricreare anche con altre squadre. La vittoria, poi, non è una cosa secondaria: devono lavorare e migliorare per far cosa poi? Per vincere, per creare questa mentalità vincenti. Questa nostra vittoria aprirà le porte alle vittorie di altre squadre della Juventus nei prossimi anni».
Si ringraziano Claudio Grauso e l’ufficio stampa di Juventus FC per la gentile concessione dell’intervista