Giovanni Floris: «da piccolo tifavo Cagliari, ma poi la Roma mi è entrata nel cuore, posso allenare in Serie D, se qualcuno chiamasse…» | OneFootball

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Calcionews24

·22 juillet 2025

Giovanni Floris: «da piccolo tifavo Cagliari, ma poi la Roma mi è entrata nel cuore, posso allenare in Serie D, se qualcuno chiamasse…»

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Le parole di Giovanni Floris: dal tifo per la Roma, ai ricordi calcistici degli anni ’80 e ’90 e poi il sogno di allenare

Giovanni Floris, volto noto della televisione italiana e appassionato romanista, ha trasformato l’amore per il calcio in una chiave di lettura della vita. Oggi, oltre alla scrivania di diMartedì, ha anche un patentino da allenatore e un sogno: tornare in campo, in panchina. Di seguito le sue parole a la Gazzetta dello Sport.

COS’È IL CALCIO PER LEI«Il calcio per me non è solo una passione, è un punto di vista. È una chiave di lettura che applichi alle cose che ti succedono. Per me è stato come saper parlare l’inglese: mi ha permesso di entrare in contatto col mondo. E mi ha fatto crescere».


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HA SEMPRE TIFATO ROMA«No. Mio padre era nuorese, da bambini tifavamo Cagliari, per questo quella squadra mi è rimasta nel cuore. Ma sono nato a Roma, i miei amici erano romanisti, erano gli anni di Liedholm, Falcao, Bruno Conti… sono finito presto in Curva Sud. E col tempo anche mio padre iniziò a guardare la Roma con altri occhi».

HA GIOCATO A CALCIO«Sì, centravanti o ala. Casale Rocchi, Artiglio, Santa Francesca Cabrini… squadre di Roma Est, campi di pozzolana spaccati dal sole o resi palude dalla pioggia. Vero calcio Anni ’80. Se ero forte? Da bambino giocavo ovunque: in cameretta, per strada, nei corridoi di scuola. Avevo sempre il pallone tra i piedi, alla fine avrebbe imparato chiunque».

GIOCA ANCORA«Raramente, a spese di ginocchia e schiena. Ma sono diventato mister: quando andrò in pensione spero di trovare una bella squadretta di Giovanissimi o Allievi».

CHE TITOLO HA OTTENUTO«Patentino B, posso allenare fino alla Serie D o fare il collaboratore in A. Ma non esageriamo! Mi basterebbe tornare in campo. Il calcio accompagna la mia vita. E i miei ricordi».

IL SUO RICORDO PIÙ FORTE«Gli Anni ’80. L’Italia del 1982, la coesione del gruppo, la determinazione che ti permette di vincere contro chi è più forte. Poi lo scudetto della Roma, la finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool. Eravamo entrati in Curva Sud al mattino, uscendo da scuola. Ricordo il biglietto con il re di coppe stampato sopra… un mio amico se lo era disegnato coi Carioca, lo fecero entrare uguale. La giornata finì a notte fonda, cantando “Grazie Roma” al concerto di Venditti. Avevo 16, 17 anni… come fai a dimenticare una giornata così?»

E GLI ANNI ’90«Tangentopoli, Berlusconi, l’Ulivo di Prodi… cambia tutto. Ma nel calcio sono gli anni di Carlo Mazzone, per me. Un tecnico geniale: competenza e sentimento. Un vero leader non può fare a meno dell’empatia».

COSA PENSA DI MOURINHO«Mou segna la svolta, riporta entusiasmo, riaccende una città. Io e i miei amici siamo tornati ad abbonarci: Tribuna Tevere laterale, più adeguata alla mia età, ma si può cantare uguale. Ero a Tirana per la Conference League, biglietto regalato da mio figlio. In curva ho ritrovato un mio compagno di liceo con cui avevo visto Roma-Liverpool 38 anni prima. Solo il calcio può fare questi miracoli».

SU DANIELE DE ROSSI«Un grande allenatore, futuro grandissimo allenatore».

E SU CLAUDIO RANIERI«Eccezionale. Capisce le persone, sa gestire le teste. Il resto viene da sé».

GASPERINI«È convincente, io ci credo. I suoi atteggiamenti mi ricordano Capello, un grande mister che ha fatto maturare squadra e ambiente».

IL 2001: ROMA CAMPIONE«L’anno del mio matrimonio. Ogni tavolo aveva il nome di un giocatore. Gli sposi al tavolo Totti, gli amici laziali al tavolo Paolo Negro, l’autore dell’autogol al derby. Dopo il matrimonio ci trasferimmo a New York. Vedemmo il 5-1 sulla Lazio, poker di Montella. Pensavo: ma io che ci faccio qui? Qualche mese dopo cominciò Ballarò».

COSA PENSA DEL RAPPORTO TRA ITALIANI E NAZIONALE OGGI?«La Nazionale funziona quando ci si sente Nazione. La retorica patriottarda dei politici non serve. Il calcio è essere squadra: aiutare i più deboli, sacrificarsi per gli altri. È lì che ci si riconosce. Dovremmo rivedere La Grande Guerra di Monicelli: ci racconta chi siamo. Cittadini imperfetti, ma ispirati. Gattuso è tosto e preparato, spero sappia cogliere il meglio della nostra identità. Gli italiani si sentono forti quando si rischia. E adesso, stiamo rischiando parecchio. In tutti i campi».

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