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·5 octobre 2024

Chi ha sbagliato paghi, ma lo Stato non può lasciare sole le società

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L’inchiesta della Procura di Milano, più attinente l’Inter che non il Milan da quanto emerso sinora, ha scoperchiato un vaso di pandora maleodorante sugli intensi e nocivi rapporti che le due curve di San Siro intrattenevano con la malavita organizzata e con i club.

Al momento le due società si sono dette parte lesa e questo è stato sottolineato anche dalle autorità («Le società sono da considerarsi soggetti danneggiati dalle condotte criminali dai soggetti sottoposti a indagine», ha spiegato il procuratore capo di Milano Marcello Viola). E visto che nessuno è colpevole sino a prova contraria e sino al terzo grado di giudizio, è bene e doveroso lasciare che l’indagine si concluda. Poi se qualcuno sarà giudicato colpevole, sia questo persona fisica o società, è giusto che questi paghi sia di fronte alla giustizia ordinaria o nel caso anche a quella sportiva.


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In questa sede però non interessa portare avanti un’analisi a livello giuridico, in primo luogo perché non è il core business di questa testata, in seconda istanza perché sono temi da lasciare a chi vi è preposto. Importa piuttosto inquadrare quanto avvenuto in un quadro di sistema, anche perché le motivazioni delle azioni criminali messe in luce dalla Procura hanno natura economica. E questo è sì il core business di questa pubblicazione.

Dai club milanesi alla Juventus, le infiltrazioni malavitose nelle curve

Entrando nello specifico il tema delle infiltrazioni malavitose nella curve non è purtroppo un problema nuovo né tantomeno solo milanese. Il presidente della Lazio Claudio Lotito per esempio non ha mancato di evidenziare come ancora oggi «viva soto scorta e riceva minacce telefoniche, anche 7-8 al giorno» oltre a subire cortei e minacce contro la sua persona e volantini che hanno come effige la sua tomba. Questo essenzialmente per non aver voluto concedere agli ultras biancocelesti dei privilegi sulla merce da vendere allo stadio oppure abbonamenti e biglietti gratis o ancora delle trasferte pagate dalla Lazio.

Problemi analoghi ha avuto anche Aurelio De Laurentiis a Napoli con gli ultras partenopei e numerosi loro colleghi sparsi per l’Italia. In questo quadro non edificante l’episodio probabilmente più significativo appare però il processo nato dall’inchiesta cosiddetta Alto Piemonte quando la Procura di Torino, all’interno di una indagine sulle attività di una cellula ndranghetista nella zona settentrionale del Piemonte, scoprì che diversi gruppi ndranghetisti si erano inseriti nel contesto del tifo organizzato della Juventus nella Curva Sud, cercando di instaurare rapporti con dirigenti e altre figure della società, con l’obiettivo di ottenere biglietti da rivendere a un prezzo maggiorato e di sviluppare la base per ulteriori attività illegali. Il processo ordinario è terminato con dieci condanne confermate dalla Cassazione, tra cui quella di Rocco Dominello, all’epoca uno dei leader di una sezione dei “Drughi”, storico gruppo di tifosi bianconeri.

A livello penale la Juventus non era stata coinvolta così come nessuno dei suoi dirigenti. Tuttavia, il processo sportivo iniziò con la chiamata a processo da parte dell’allora procuratore federale Giuseppe Pecoraro di Andrea Agnelli, al tempo presidente del club bianconero, dei dirigenti nominati nelle carte dell’inchiesta e della Juventus stessa per responsabilità diretta e oggettiva. Le richieste della Procura federale furono inizialmente pesantissime (30 mesi di inibizione per Agnelli quella più clamorosa) ma poi vennero ridotte in maniera sostanziosa in primo grado e dopo l’appello: Agnelli pagò con 3 mesi di stop e una multa di 100mila euro, la società invece con una multa da 600mila euro e una giornata a curva chiusa per la squadra. Nessuna penalizzazione, praticamente nulle le ricadute sul piano sportivo.

Alla vicenda legata all’inchiesta Alto Piemonte seguì poi quella denominata Last Banner, nata da una denuncia alla Digos da parte del club bianconero per le pressioni esercitate dalla curva nei confronti della società durante la stagione 2018/19: una indagine che ha portato alla condanna per cinque esponenti della tifoseria organizzata della Juventus.

Lo Stato e la lotta alla criminalità tra gli ultras

Il punto però è un altro. La Juventus è probabilmente il club, almeno in Italia, con la struttura aziendale più solida. Ha la proprietà più longeva nel mondo del calcio internazionale, è controllata da una tra le dinastie più importati dell’intero panorama industriale mondiale, eppure, nemmeno con questa forza alle spalle che dovrebbe consentire una certa impermeabilità di fronte al malaffare, il club non è riuscito a non essere vittima (perché i processi hanno dimostrato che la Juventus era solo e soltanto vittima) di infiltrazioni malavitose nei suoi meccanismi aziendali.

Non solo, ma non va nemmeno scordato che a quei tempi il presidente era Andrea Agnelli, ovvero un membro importante della dinastia proprietaria e in trasparenza uno dei suoi azionisti principali visto che il figlio di Umberto, insieme alla sorella Anna, è il secondo socio, dopo fratelli Elkann, della Giovanni Agnelli BV che a sua volta controlla Exor e che a catena è il maggior socio della Juventus. Insomma sulla graticola e nel mirino dei malviventi non c’era un manager esterno che, per dirla in maniera brutale, al limite si poteva sacrificare, ma un membro stesso ed importante della dinastia proprietaria. Ma anche questo non è stato sufficiente per evitare che il cancro del malaffare si inoculasse nella società.

Ora in questa sede non si vogliono fare sconti a nessuno e se le inchieste di Milano evidenzieranno che qualcuno ha sbagliato, siano essi persone fisiche o società, è giusto che paghi sia a livello ordinario sia eventualmente a livello sportivo. Nello stesso tempo però non si può sottacere che se nemmeno la dinastia più potente e radicata in Italia ha potuto evitare infiltrazioni malavitose in una delle sue società più note, la cosa è ancora più complessa per un imprenditore di taglia minore (e quindi più debole di fronte alle eventuali pressioni illegali esterne) oppure per una proprietà straniera, che di certo non è innervata nel territorio italiano come lo è da sempre la famiglia Agnelli.

Per non parlare dei tesserati il cui unico obiettivo lavorativo dovrebbe essere quello di svolgere bene il proprio mestiere e non quello di preoccuparsi di non trovarsi di fronte brutte persone quando tornano la sera a casa.

È evidente che le società non possono essere lasciare sole in questa battaglia. Ed è solo con una azione costante, pressante e coordinata dello Stato, sia in termini di strumenti normativi che di polizia giudiziaria, che si può uscire da questo circolo vizioso che da decenni attanaglia il nostro sport più popolare.

Le operazioni una tantum, per quanto meritorie, servono ma non risolvono il problema. Perché la gestione economica delle curve da stadio è talmente proficua che messo in prigione il vertice di una determinata tifoseria presto se ne ricrea un altro per non perdere un business così lucroso.

Proprio durante l’inchiesta sulla Juventus, per esempio, era emerso come la gestione dei biglietti possa essere un tesoro impareggiabile per chi può gestirla. Si ponga il caso di un tagliando per una semifinale di Champions League (teoricamente il match più importante che un club possa ospitare in casa): questo se acquistato al prezzo stabilito (diciamo 80 euro) può tranquillamente essere rivenduto anche a 1000 euro se non di più, considerando la domanda di biglietti che praticamente giunge da tutto il mondo. Praticamente si parla un rendimento del 1.150% che introvabile non solo sui mercati finanziari ma probabilmente anche in altri strumenti sul mercato nero. E per di più con la quasi sicurezza che non si farà fatica per trovare un compratore. Insomma un investimento dal 1.150% di rendimento con la sicurezza di un obbligazione garantita dallo Stato.

Non solo, ma il tema di queste infiltrazioni pone anche un problema anche in ottica prospettica in quella che ormai è diventata una gara tra campionati nazionali per incassare sempre più denaro: perché mai un imprenditore straniero dovrebbe essere invogliato a investire in un club italiano se questi pericoli non vengono azzerati?

L’Inghilterra di fine anni ’80 pose fine al teppismo negli stadi, devastante sin dagli anni ’70, con una azione continua dello Stato sia in termini normativi che repressivi. Questo non significa che il fenomeno dell’”hooliganism” nel Regno Unito sia stato vinto completamente, ma è stato spostato al di fuori del calcio. Ed è anche di li che la Premier League è potuta partire per diventare il campionato nazionale più bello del mondo.

Gli Stati Uniti sono uno tra i Paesi più violenti al mondo, ma questa violenza non sta all’interno degli stadi o dei palazzetti dei grandi sport nazionali. Gli imprenditori sono liberi di investire senza il pericolo di dover trovarsi come “soci” delle pericolose organizzazioni malavitose.

In questo quadro è bene che le istituzioni si muovano in maniera ancora più continua e pressante per proteggere un settore industriale che vale oltre 11 miliardi di euro di PIL, che da lavoro a circa 130mila persone nel nostro Paese e che paga imposte per oltre un miliardo di euro alle casse della nazione.

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