Ibrahimovic a GQ Italia: «Sono al Milan per scrivere la storia, Cardinale vuole risultati e riportare il club dove merita. Vi svelo un retroscena sulla Supercoppa Italiana» | OneFootball

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·24 de febrero de 2025

Ibrahimovic a GQ Italia: «Sono al Milan per scrivere la storia, Cardinale vuole risultati e riportare il club dove merita. Vi svelo un retroscena sulla Supercoppa Italiana»

Imagen del artículo:Ibrahimovic a GQ Italia: «Sono al Milan per scrivere la storia, Cardinale vuole risultati e riportare il club dove merita. Vi svelo un retroscena sulla Supercoppa Italiana»

Ibrahimovic, Senior Advisor del Milan, ha parlato del momento del club rossonero e degli obiettivi di RedBird: le dichiarazioni

Intervistato da GQ Italia, Zlatan Ibrahimovic ha dichiarato:

NUOVO RUOLO – «Come calciatore sei sempre in tuta, in abbigliamento sportivo, quello che vuoi tu. Lo avevo promesso alla squadra all’inizio: non mi vedrete mai in giacca e cravatta. E invece è cambiato tutto in fretta. Se mi piace mettere il completo? No. Lo ammetto. Non mi sento a mio agio. Io sono l’atleta, uomo di sport. Ma ogni volta che mi vorrei vestire come voglio, Helena mi guarda e dice: ‘Oggi devi mettere il completo’. Io rispondo: ‘Perché?’. E lei: ‘Perché hai una conferenza stampa. Quindi metti la cravatta e zitto. Let’s go’. Ma lo capisco anch’io: oggi non mi vesto per rappresentare chi sono io. Mi vesto per il ruolo che ho: oggi rappresento il Milan, rappresento RedBird».


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GIOCO DI SQUADRA – «Come in campo, anche qui il gioco di squadra è la cosa più importante di tutte. È quello che ho detto a Gerry Cardinale quando ho accettato di lavorare con lui. Gli ho detto chiaramente: ‘Non è più un one-man show. Non vengo qui per salvare nessuno. Se pensi che sia così, lasciamo perdere subito. Io non sono qui per salvare la situazione. Sono qui per imparare dagli altri e aiutarli a dare il meglio. Imparare. Aiutare. Teamwork».

CARDINALE – «Ho detto a Gerry, sono probabilmente l’unica persona in quel sito che non è andata ad Harvard. Anzi: io vengo dalla strada. Lui si è messo a ridere. Dice che mi vuole anche per quello. È stato tutto merito di Gerry. Quando ho smesso di giocare avevo 42 anni. Mi sono detto: ‘Ascolta, devi essere realista. Devi accettare che non sei più quello di prima’. Il problema più grande, il vero problema che ogni calciatore ha, è proprio questo: accettare la realtà e mettere da parte l’ego. Capire che hai superato la data di scadenza. Io l’ho fatto. L’ho accettato. E così ho trovato la mia pace. Da quel momento sono tranquillo. E quella era la parte più difficile».

POST RITIRO – «Ho iniziato a godermi la vita in un altro modo, senza allenarmi ogni giorno. Sono stato tanto con la mia famiglia, come faccio sempre. Io non sono uno che esce la sera. Se guardi il mio Instagram, non troverai mai una foto di mia moglie o dei miei figli. Perché per me loro sono sacri, privati. E quindi, dopo che ho smesso di giocare, ho passato tanto tempo con loro. E rivivevo la mia vita attraverso loro. Era come un flashback, ma con loro ma non con me in campo. Perché quando giocavo, di tempo per loro ne avevo poco. Adesso volevo recuperare. È stato veramente fantastico».

RITORNO AL MILAN – «Non stavo nemmeno cercando qualcosa da fare. Nessuna sfida, niente. Mi sono detto: ‘Prenditi il tuo tempo. Guarda cosa succede. Rallenta. Abituati alla nuova vita’. E dopo tre mesi sono venuto a trovare i ragazzi qui al Milan. Ho parlato con Furlani, il CEO. Gli è piaciuta la nostra chiacchierata e mi ha detto: ‘Dovresti incontrare Gerry Cardinale’. Così l’ho incontrato. Abbiamo parlato. Voleva sapere di più su di me, cosa voglio, chi sono. Conoscermi meglio. Poi mi ha detto: ‘Voglio che tu sia in RedBird. Non nel Milan. In RedBird. Voglio che lavori con il Milan. Porta la tua esperienza. Impara l’altro lato del calcio, quello che non vedi in campo. La finanza, i numeri, come funziona tutto».

SFIDE – «Sono uno che ama le grandi sfide. Quando faccio qualcosa, deve essere una cosa gigante. Altrimenti non sento l’adrenalina, la pressione. E io ho bisogno della pressione. Le cose normali non mi piacciono. All’inizio ho detto no, non sono interessato. Anche perché quando il mio agente Mino Raiola è venuto a mancare, un paio di anni fa, avevo l’opportunità di entrare nella sua azienda, diventare un procuratore. Ci ho pensato. E sono stato chiaro con Gerry: ho detto, ascolta, ho questa opportunità, e ho anche quella che mi stai offrendo tu, ma in realtà… non voglio nessuna delle due. Perché la mia vita in quel momento era bella così. Non dipendevo da nessuno. Nessun orario da seguire. Nessuna sveglia alle sette. L’unico piano che avevo erano i miei due ninja, i miei due ragazzi, ed Helena. E poi ovviamente la vita a casa, gli allenamenti. E poi, cos’è successo? È stato Gerry, come ti dicevo. Lui spinge. Spinge forte. Ora capisco perché ha successo: non molla mai. È il vero Wolf of Wall Street. Ottiene sempre quello che vuole. Alla fine, mi ha dato un’opportunità a cui non potevo dire di no. E poi anche mia moglie mi ha detto: ‘Se ti conosco bene, so che dopo un po’ ti annoierai. Tu hai bisogno di una sfida. Vai, fai quello che devi fare e sii te stesso’. E lei mi conosce e bene. E no, non c’entrano i soldi. Perché io non sono pagato dal Milan, capito? Non sono un dipendente del Milan. Io lavoro per RedBird. Ma la mia responsabilità è chiara: portare l’AC Milan dove gli spetta. Vincere».

IBRAHIMOVIC COME BOSS – «Ho fatto una battuta, una di quelle classiche, da Ibra, no? Ma dipende sempre da con chi scherzi. Parlando con te, magari non la direi. Ma lì c’erano ex giocatori, quindi ho detto: ‘Io sono il boss, e tutti lavorano per me’. La prima volta l’ho detto in un’intervista in inglese, ma aggiungendo che era una battuta. Perché poi ho anche chiarito il mio ruolo di advisor, rappresentante della proprietà, tutto il resto. Ma ovviamente, quando ero giocatore, una battuta così veniva presa in un certo modo. Ora? Ognuno la interpreta come vuole».

IBRAHIMOVIC ARROGANTE – «C’è chi dice: ‘Zlatan è arrogante’. E poi tutto viene elaborato e amplificato. Stare attento a quello che dico fa parte del cambiamento di ruolo. Prima ero un giocatore, rappresentavo me stesso. Ora rappresento qualcosa di molto più grande. Rappresento RedBird. E parlo con Gerry ogni giorno. Perché tanta gente dice: ‘Cardinale è il proprietario, ma non è sempre qui’. Gerry ha tante altre cose a cui pensare, giusto? Lo dice spesso: ‘Questo non è il mio lavoro di tutti i giorni’. Ma gli importa, e molto. È molto legato al Milan, vuole avere successo, il Milan è assolutamente centrale nei piani di RedBird. Vuole riportare il Milan dove merita di stare. A modo suo, con la sua visione, la sua ambizione. E noi seguiamo quella strada. Lui ha messo le persone giuste a gestire il Milan. E ti dà la responsabilità, ma in cambio vuole una cosa semplice: i risultati».

STRESS – «In questo lavoro, a Casa Milan, non ti rendi conto di essere stressato… finché non sbatti contro il muro. E quando succede, potrebbe essere troppo tardi. Per questo cerco di bilanciare tutto. Per esempio, io non ho un ufficio. Loro volevano darmene uno, ma ho scelto di no. Una scrivania non è prova di efficacia. Per me è mettere tutto l’impegno nel fare quello che serve. Stop. Che sia qui a Casa Milan o a Milanello. Come gestivo lo stress da giocatore? Se ero stressato, arrabbiato, o c’era qualcosa che non mi piaceva, andavo in palestra per due ore. Ancora oggi cerco di allenarmi ogni giorno, quando riesco. Per scaricare la rabbia, per tirare fuori l’energia. Se qualcosa non va, se qualcosa non si chiude, mi sfogo così: mi alleno, soffro in allenamento. Perché a me piace soffrire. Nella mia testa è chiaro: se vuoi arrivare in alto, devi soffrire».

ABITUDINE – «Qui succedono sempre situazioni nuove. Non sono ancora abituato a tutto, quindi osservo, imparo, accumulo esperienza. Dico la mia quando serve, ma se non mi sento sicuro, non vado a dire agli altri cosa devono fare nel loro campo. Se non è la mia area, mi fido di chi è davanti a me. Lui deve prendere la decisione giusta. Ma una cosa è chiara: io mi aspetto risultati. Ogni cosa che facciamo, deve portare risultati. Non siamo una fondazione di beneficenza. Siamo un club di calcio. E nel calcio, i risultati contano. Perché io dico sempre così: ‘Il Milan non gioca per vincere una partita. Non gioca per vincere trofei. Il Milan scrive la storia».

ULTIMO SCUDETTO – «Sai come abbiamo vinto l’ultimo scudetto, quando giocavo? Con la mentalità. Perché con la giusta motivazione, con la giusta mentalità, un atleta è capace di tutto. Non eravamo la squadra più forte, ma abbiamo vinto perché eravamo più forti mentalmente. È questo che cerco di portare, sempre. È diverso, ovviamente, a Milanello e a Casa Milan, perché quando vedo un calciatore, so cosa fare per motivarlo, so chi devo abbracciare, so a chi devo fare un sorriso, so chi devo guardare male, so con chi devo fare la voce grossa. Quello spogliatoio lo conosco benissimo. Con la parte di business, è più sottile. La cosa a cui tengo di più è l’idea di unire questi due mondi, perché non c’è la squadra di là, a Milanello, e la società, qui, a Casa Milan. C’è solo una cosa, c’è solo il Milan. E io voglio unire questi mondi. È così che lavoriamo. Arriva un nuovo giocatore? Viene con me. Mi dicono: ‘Ibra, sarebbe bello se Walker visitasse Casa Milan’. Io rispondo: ‘Non ti preoccupare, visiterà ogni piano, e saluterà tutti. Lo farà’. E l’ha fatto. È stato incredibile. Così vede tutto il sistema: il business, il commerciale, la squadra, lo staff. Tutti insieme».

MILAN FUTURO – «Noi portiamo una nuova cultura, a modo nostro. Come l’idea di creare Milan Futuro, che per noi è importantissimo. Per me, l’Academy è fondamentale. Senza la base, non c’è la vetta. La vetta, la prima squadra, è incredibile, perché è il cuore. Ma è la base che tiene il cuore. È il sangue. Il sangue che circola e fa funzionare il cuore. Il Milan deve avere una grande Academy. Ed è così che le idee rimbalzano, noi discutiamo, proviamo cose nuove. Siamo anche dei manager molto più giovani della media in Italia, e ti assicuro che quando ci vedi di fianco alle altre squadre, lo noti. Il nostro approccio è di fare le cose alla nostra maniera. E non è che io comando e gli altri seguono, no. Parliamo, ci confrontiamo. Siamo qui per costruire qualcosa di nuovo. Senza paura. Questa è la vera risposta, se mi chiedi qual è il mio ruolo. Ti faccio un altro esempio. Per la prima volta, ho portato tutta la squadra a San Siro. Dovevano salutare tutta l’Academy, ma tutti. Perché voglio che i ragazzi delle giovanili vedano la prima squadra. E voglio che la prima squadra veda chi sta rappresentando. Per chi gioca, di chi sono esempio. È una questione di mentalità. E per i bambini? Wow. La gente è impazzita. Prima andavano uno, massimo due giocatori a salutare. Adesso? Tutti».

SUPERCOPPA ITALIANA – «Quando abbiamo vinto la Supercoppa a Riyadh, quando eravamo in campo a festeggiare, la prima cosa che ho detto ai miei è stata: ‘Quando torniamo, portiamo il trofeo a Casa Milan. Facciamo una foto con tutti. Perché tutti hanno il diritto di vedere questo trofeo, non solo i giocatori’. E quando dico tutti, intendo tutti. Non solo massaggiatori o i fisioterapisti, ma tutto il Milan, tutto il commerciale, proprio tutti. Questa è la cosa più importante. Per questo, il nostro motto è ‘Winning Together».

OBIETTIVI – «Alla fine, il mio ruolo non conta. Quello che conta è il Milan. Noi vogliamo che il Milan abbia successo. Tutto quello che facciamo qui, lo facciamo per il Milan. Non c’è ego, almeno per me. L’ho detto, non è un one-man show. Preferisco stare nell’ombra, non voglio nemmeno prendermi nessun merito. Credimi, ho detto ai ragazzi: ‘non voglio nemmeno essere nelle foto o nei video’. Poi ho capito che devono sfruttare certe dinamiche, e questo lo rispetto. Ma fidati: se fosse per me, non mi vedresti. Lavorerei e basta. Lavoro, lavoro, lavoro. Il Milan è la stella. Non io. Io sono qui oggi, sono qui domani, ok. Ma dopodomani? Magari non ci sono più. Il Milan invece continua a esistere. E io lo faccio per il Milan, non per me. Il Milan mi ha dato felicità la prima volta. E me l’ha data anche la seconda volta. Ma non lo faccio per un interesse personale. Non ho bisogno di questo. Sono famoso, non mi servono soldi, e non mi servono nemmeno follower. Lo faccio per il Milan, e perché voglio imparare cose nuove. Quando giocavo, tutto girava intorno a me. Oggi sono il bodyguard: se devono sparare a qualcuno, che sparino a me. Io voglio proteggere squadra e società. Non mi fa paura, perché io sparo due volte indietro. Quindi posso essere io il bersaglio. Ho passato dieci anni di guerra. E se vivi una guerra nei Balcani, non è che ti chiamano per dirti come va. Sei tu che aspetti la chiamata, per sapere cosa sta succedendo. Per sapere se la tua famiglia sta bene. Ogni giorno qualcuno ti chiama piangendo, e tu non sai se domani saranno ancora vivi. E tu non puoi fare niente. Se qualcuno ha passato dieci anni così, non ha paura di nessuno. Perché quella è un’altra cosa. Quella è la vera paura. E quando i media parlano di me? Non mi tocca. Per 25 anni da calciatore mi hanno attaccato ogni giorno. Perché? Perché ero il migliore. Che parlino bene o male, se parlano di te significa che sei in cima al mondo. E qui è uguale: tutti parlano sempre del Milan. Perché? Perché siamo i più grandi».

REDBIRD E IL MILAN – «Il Milan è il club più famoso d’Italia. Noi rappresentiamo il calcio italiano nel mondo. Dna, mentalità, pedigree. I numeri parlano chiaro. Tutti parlano di noi. E se parlano di noi, significa che stiamo facendo qualcosa di grande. Una nuova mentalità. Il nostro management è giovane, internazionale. Gente con visioni diverse, ambizioni diverse: c’è fame. E questo è incredibile. Non abbiamo paura. Questa è la nostra forza. Facciamo quello in cui crediamo, senza paura, senza limiti, facciamo le cose a modo nostro. Non guardiamo gli altri. Andiamo avanti, sempre. Qualsiasi muro troviamo davanti? Lo sfondiamo. E fidati di me: noi siamo il rock and roll. Puntando sempre ai risultati. Siamo la nuova scuola».

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