Bove: “De Rossi mi ha scritto, Totti no. Voglio tornare a giocare. Mi è sempre piaciuta Londra” | OneFootball

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·21 de febrero de 2025

Bove: “De Rossi mi ha scritto, Totti no. Voglio tornare a giocare. Mi è sempre piaciuta Londra”

Imagen del artículo:Bove: “De Rossi mi ha scritto, Totti no. Voglio tornare a giocare. Mi è sempre piaciuta Londra”

Edoardo Bove ha rilasciato una lunga intervista per Vanity Fair. Tanti i temi affrontati dal centrocampista, a partire da quello che è stato il malore che lo ha colpito negli scorsi mesi fino ad arrivare a quello che potrebbe essere il suo futuro. Queste le sue parole:

Che ricordi ha di quel primo dicembre, di quel diciassettesimo minuto? “Ricordo davvero poco, che ero in campo e che a un certo punto ha cominciato a girarmi la testa come quando ti alzi troppo velocemente dal letto, ho avvertito una sensazione di spossatezza… e basta. Non ricordo di essere caduto. Mi sono risvegliato in ospedale, toccandomi le gambe perché pensavo mi fosse successo qualcosa al ginocchio, un incidente. Per me, all’inizio, non è stato difficile come per i miei cari: io non capivo nemmeno la gravità della situazione, pensavo di essere semplicemente svenuto. Loro invece sapevano di avere corso il rischio perdere un figlio, un amico, o di potermi rivedere in condizioni… brutte”.


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E ricorda qualche sensazione dei minuti in cui ha perso coscienza? “No, il nulla. Mi hanno raccontato, però, che quando ero in ambulanza ho fatto un po’ di casino: gridavo, mi dimenavo, dicevo cose a caso. Ho urlato “Fiorentina” fortissimo. Mi hanno dovuto legare”.

Ha rivisto le immagini di quando si è sentito male? “Subito, su Instagram. Preferisco prenderle di petto le situazioni, reagire immediatamente: se non posso farci niente, mi dico “andiamo avanti, vediamo cosa posso fare subito per stare meglio”. Capire le cause di quello che mi è successo è stato il passo successivo”.

Che cosa ha pensato? “Sincero? “Ammazza che figura di… davanti al mondo intero. Ma non potevi scegliere un altro momento?!”. Era la partita delle 18, quella per il primo posto in classifica, la stavano guardando tutti. Detesto farmi vedere vulnerabile. Subito dopo, però, ho capito di essere stato molto, molto fortunato. Ho rischiato tanto, devo essere grato alla vita perché tutto è successo in un campo di calcio, col soccorso a portata di mano: in 13 minuti ero in ospedale. Non so come sarebbe andata, se fosse successo in un’altra circostanza. Dopo aver metabolizzato, mi sono sentito la persona più felice del mondo”.

Ha capito da solo che sarebbe potuto morire? “No, me l’hanno detto”.

E qual è stata la sua reazione? “Inizialmente mi hanno prospettato una situazione persino più grave di quanto realmente fosse. Ma lì per lì ero semplicemente contento di essere vivo. Era destino che andasse così, che mi salvassi. Non c’è altra spiegazione”.

Si è chiesto «perché proprio a me»? “Certo. E anche “perché proprio nel momento migliore della mia carriera?’ Che cosa si è risposto? “Mi reputo una persona buona, che rispetta sempre tutti, non ho fatto male a nessuno. A quelle domande non ci sarà mai una risposta”.

Ha passato 12 giorni in ospedale. “Stavo bene, ero tranquillo. Ma vedevo la preoccupazione e la sofferenza negli occhi delle persone che mi vogliono bene. Sono un personaggio pubblico, sono abituato all’attenzione mediatica, anche alle notizie prive di ogni fondamento. Loro no. Hanno scritto qualsiasi cosa: che non sarei più potuto tornare a giocare, che mi sarei operato un certo tal giorno…. Mia nonna mi ha chiesto: “Ma come, ti operi domani e non mi dici niente?”.

Le ha fatto male? “Sì, certi titoli, la ricerca dello scoop a tutti i costi. A un certo punto ho smesso di leggere i giornali”.

Come è andata, quando è uscito dall’ospedale? “All’inizio ho saputo reagire con forza. Ma poi è arrivata anche la tristezza: mi sono buttato giù, non volevo vedere nessuno, non volevo fare niente. Non avevo voglia”.

Credo sia normale, ma lei come se lo spiega? “Sono un po’ ossessionato dal controllo, una delle mie più grandi paure è perdere quello della situazione. Non ho potuto controllare ciò che mi è successo, e quindi, sotto sotto, già ero arrabbiato per quello. E poi, in questo momento, mi sento completamente in balia degli eventi, impotente”.

Era arrabbiato con se stesso? “Lo sono ancora, un po’. Mi viene da chiedere al mio cuore: “Ma che scherzetto mi hai fatto, ma ce n’era proprio bisogno?”.

E che cosa le ha risposto il suo cuore? “Sto ancora cercando la risposta, è un’analisi che sto facendo dentro di me. Dal punto di vista medico c’è certamente una causa scatenante, ma ancora la dobbiamo capire fino in fondo. Sto facendo dei controlli, e altri ne farò ancora. Su questo fronte sono positivo e tranquillo. Però… e come se il cuore mi volesse mandare un segnale. Queste cose succedono quando il cuore è sotto sforzo, forse troppo”.

Si sente in colpa? “No, sono molto sicuro di me, orgoglioso, mi sento forte. Ma questo incidente mi ha fatto dubitare della mia forza. Non vorrei arrivare a dire di essere stato io stesso a mettermi nella condizione di provocare tutto ciò, ma alla fine, dentro di me, in qualche modo…”.

Quanto è importante il calcio nella sua vita? “È uno dei miei più grandi amori. C’è quello per la mia famiglia, quello per la mia fidanzata e quello per il calcio”.

In quest’ordine? “Non le dico che siano tutti allo stesso livello, ma insomma. Io, ora, sento di non essere lo stesso senza il calcio. È difficile esprimere cosa sia il calcio per me: le sembra troppo se dico che è una forma d’arte?. So che può sembrare esagerato, perché giustamente uno pensa: “Vabbè, rincorrono un pallone…”.

Ora è completamente fermo: le manca? “Tantissimo. Non solo quello della serie A, mi manca proprio giocare con gli amici. Non poter giocare è stato come perdere il mio amore più grande, posso spiegarglielo solo così. Adesso la sfida è provare a continuare a essere me stesso, sapendo però di avere perso una parte importante di me”.

Prima di ora si era mai scoperto fragile? “Non direi. Ecco perché questa cosa mi ha fatto molta paura”. Ha ancora paura? “Mi fa paura non avere, per la prima volta nella mia vita, una routine. Non ho uno schema da seguire, posso fare quello che voglio. Prima, mi svegliavo la mattina e sapevo che il mio obiettivo era allenarmi. Ora faccio 200mila cose in più, anche più importanti, ma arrivo a sera e mi chiedo: ma che ho fatto oggi? Non sono appagato allo stesso modo”.

Non si starà rattristando? “Ma no, zero. So che questo è un periodo, una condizione temporanea. Il mio obiettivo è tornare a giocare a giugno”.

E come farà? “Eh (ride). Ho ancora qualche visita da fare, i medici devono incrociare tutti i dati”.

E poi? Ora ha un defibrillatore sottocutaneo in grado di rilevare il battito cardiaco irregolare ed erogare uno shock salvavita per riportarne il ritmo alla normalità. “Se si decide di mantenerlo, in Italia non potrò giocare: qui da noi la salute viene prima dell’individuo, e non sto dicendo che sia una regola sbagliata. Ma all’estero sì, praticamente ovunque. Gliel’ho detto, il calcio è troppo importante per me, non posso permettere a me stesso di mollare così. Io ci riprovo, senza ombra di dubbio. Vedrò anche come starò: se avrò paura, se non sarò tranquillo… allora cambierà tutto”.

A un certo punto, forse, le toccherà fare tra sé e sé un calcolo del rischio. “Mi possono dire quello che vogliono, ma l’ultima parola spetterà a me. Anche se decidessi di giocare all’estero, dovrei firmare un documento assumendomi la responsabilità di quanto potrebbe accadermi in campo”.

Sta pensando di giocare all’estero? “Per come stanno le cose adesso, sì. Però non escludo affatto di poter togliere il defibrillatore: i medici mi stanno dicendo che c’è questa possibilità”.

Uno «regolare» e abitudinario come lei sarebbe pronto a questa svolta radicale nella sua vita? “Non mi spaventa. Già quest’estate sono stato vicino ad andare a giocare all’estero. Non ho difficoltà ad adattarmi, mi basta trovare una mia routine”.

In che città non le dispiacerebbe trasferirsi? “Mi è sempre piaciuta Londra. E poi il campionato inglese è molto competitivo”.

Non si aspettava di ricevere affetto da parte di tutti? “Non così. Il mio caso ha quasi unito l’Italia, è stata una cosa potente. Per strada mi fermano anche i tifosi della Lazio per chiedermi come sto. Vede, alla fine se ti comporti bene, il bene ti torna indietro”.

Daniele De Rossi l’ha messaggiata? “Eh sì, certo! Mi sarei arrabbiato se non l’avesse fatto”.

E Totti? “Lui no”.

Qual è il risvolto più positivo di questa brutta vicenda? “Forse che mi sono iniziato a vedere come “una persona normale”. Perché un ragazzino che inizia a giocare a calcio ha la sua strada segnata fin da giovanissimo, ha un obiettivo chiaro, fisso e ben definito. Ha un fuoco. In questo momento sto cercando di capire come mi senta nel vivere una vita senza quel fuoco”.

José Mourinho, suo grande sostenitore, l’ha definita un «cane malato». Voleva essere un complimento? “Sì, anche se uscito male. So che mi vuole bene”.

Ha anche detto: «Sembra un trentenne». “Anche quello era un complimento. Non parlava mica del mio aspetto fisico”.

Si sente più maturo rispetto ai suoi 22 anni? “Sono sincero: no”.

Allora Mourinho sbagliava. “Lui parlava di certi miei comportamenti un po’ noiosi, un po’ pedanti”.

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