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·31 March 2025
Roberto Pruzzo, 70 anni da Bomber: “Ho vissuto una parentesi buia, mia moglie mi ha ripreso per i capelli”

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·31 March 2025
Domani, 1° aprile, Roberto Pruzzo compirà 70 anni. Un traguardo importante per uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio italiano, bomber simbolo della Roma dello Scudetto 1982-83. In un’intervista rilasciata a Il Messaggero, Pruzzo ha ripercorso la sua carriera, la sua vita e i momenti difficili affrontati dopo il ritiro dal calcio.
L’ex attaccante genoano e giallorosso ha raccontato di aver attraversato una fase molto complessa tra i 50 e i 60 anni: “Ti svegli una mattina e ti accorgi di colpo che gli anni passano. Rimugini, ti deprimi e può capitare di fare brutti pensieri. Ho vissuto una parentesi buia, e devo dire grazie a mia moglie, la migliore psichiatra che potevo trovare in quel momento. Ma non posso dimenticare nemmeno l’amore di mia figlia Roberta e la vicinanza degli amici”.
Pruzzo ha poi ripercorso le tappe della sua carriera, dagli esordi a Genova fino alla gloria con la Roma, senza tralasciare il rammarico per la Nazionale, dove Bearzot lo escluse dai Mondiali dell’82 e dell’86. Ecco l’intervista integrale:
Eravamo belli io e Bruno, vero? Ma una coppia così quando la rivedete a Roma? Intende lei e Conti?
“Certamente, 268 partite insieme, sono proprio tante. Quando vi ricapita”.
Cominciamo bene. Vogliamo trasformare questa intervista per i suoi 70 anni con lei davanti ad un caminetto su una sedia a dondolo che sfoglia l’album dei ricordi?
“Sono tanti 70, non mi ci faccia pensare. Però è inevitabile guardarsi indietro”.
E cosa vede?
“Un ragazzino di 6-7 anni con i calzoncini corti che correva dietro ad un pallone”.
Già con i baffi?
“No, quelli sono arrivati intorno ai 16 anni (ride). Giocavo per strada. Lo sa che il primo campo a 11 penso di averlo visto a 15 anni? Ai tempi miei al massimo si giocava a 7 in parrocchia. Per quello mi sono abituato a liberarmi nello stretto”.
È stato più forte come calciatore o più bravo come papà?
“Purtroppo come giocatore, a volte sono stato un padre un po’ distaccato. Anche se mia figlia sa il bene che le voglio, spero di essere stato almeno presente nei momenti importanti, quelli che servivano”.
I suoi genitori l’hanno vista esordire in serie A?
“Bella domanda. Papà sì, mamma penso di no. Mio padre è venuto a vedermi a Marassi, avevo 17 anni, ero un bambino. Ma poi soffriva troppo e ha lasciato perdere”.
Le va di fare un gioco? Dividiamo la sua vita in fasce decennali e per ogni fascia lei ci regala una foto. Iniziamo con quella dai 0 ai 10 anni.
“Mi viene in mente il campo di Crocefieschi, anche se poi ci andavamo solo la domenica. Diciamo allora io che corro dietro a un pallone per strada”.
Passiamo a quella dai 10 ai 20.
“La scuola e il Genoa. La prima non faceva per me. Le uniche materie che apprezzavo erano geografia e storia, le altre un mezzo disastro. Il Genoa, invece, è l’esordio e il mio primo gol in A, la fascia di capitano a 20 anni. Roba mica da ridere”.
Come venne reclutato dal Genoa?
“La leggenda dice che mi vide un benzinaio e mi segnalò al presidente Fossati. In realtà mi portò un mio amico di Crocefieschi, Remo Poggi. Fino a quel momento al massimo avevo giocato nei tornei dei bar o dei paesi. E da lì è iniziato tutto”.
Torniamo al gioco: siamo nella fascia 20-30.
“È stato il periodo più bello della mia vita. Una foto non basta, perché ne dovessi scegliere una direi mia moglie e mia figlia. Brunella sono 50 anni che mi sopporta mentre Roberta è nata nel ‘79. Ma non posso dimenticare neanche il militare e lo scudetto con la Roma”.
Il militare?
“Eh sì, grazie alla nazionale militare girai un po’ il mondo. Fino a quel momento al massimo ero stato a Genova. A quell’epoca andare negli Stati Uniti era come sbarcare sulla Luna”.
E invece dai 30 ai 40 anni?
“Uno scatto? Gli aerei. Non vedevo l’ora di smettere e quando l’ho fatto mi sono divertito a girare il mondo a osservare i calciatori. L’ho fatto pure per la Roma”.
Ricordiamo bene, ci racconta la storia di Paz e Cesar Gomez?
“Dopo tanti anni posso dirlo: Paz non l’ho mai visto giocare. Ogni volta che andavo per vederlo, rimaneva fuori. Un giorno mi ritrovo che la Roma ha preso Gomez e bisognava andarlo a prendere all’aeroporto. “Ma io non ci vado”, dissi. Come venne scelto non lo so”.
Lei segnalò invece Helguera?
Sì e anche Candela. Era un lavoro che mi piaceva ma poi sono arrivati i procuratori e mi rompevano troppo le scatole. Così ho smesso”.
Siamo arrivati alla fase dai 40 ai 50.
“Mi sono divertito a fare il dirigente, sono tornato nel calcio dei dilettanti per poi andare in C e in B. Ho rivissuto il calcio di una volta”.
C’è poi la fascia più critica della sua vita, quella dai 50 ai 60 anni.
“Sì, perché ad un certo punto ti svegli la mattina e ti accorgi di colpo che gli anni passano. Cerchi allora una motivazione e delle volte non la trovi. E così rimugini, ti deprimi e può capitare di fare anche brutti pensieri. Ho vissuto una parentesi buia e devo dire grazie a mia moglie, la migliore psichiatra che potevo trovare in quel momento. Ma non posso dimenticare nemmeno l’amore di Roberta che in quel momento è stata più di una figlia e la vicinanza dei miei amici che se ne sono accorti e mi hanno ripreso per i capelli”.
Periodo fortunatamente superato per arrivare ad oggi, la fascia dai 60 ai 70.
“Ora sto bene e ho imparato a prendere il meglio da ogni giorno”.
Domani compie 70 anni. C’è una cosa che le piacerebbe fare?
“La maratona. Ma chi ce la fa? Se mi azzardo a fare anche la mezza maratona mi ritrovate svenuto sul ciglio della strada…”.
Si ricorda come ha speso il primo stipendio?
“Mi comprai la macchina”.
Proprio all’automobile sono legati aneddoti indelebili della sua vita.
“È vero, i viaggi con Viola e la signora Flora sono stati memorabili. Ero il cocchetto del presidente e quando rientravamo dalle trasferte viaggiavo sempre con loro. Aveva un Bmw 730, quelli grandi, io me ne morivo per guidarlo ma non me l’ha mai fatto portare. Si partiva, lui accendeva gli abbaglianti, si metteva in corsia di sorpasso e iniziavamo a parlare di arbitri. Incominciava tipo “Allora Roberto come è andata?”. E io “Male presidente questo arbitro è un pezzo di…” e cominciavo a dirne di tutti i colori. E dietro la signora Flora che rideva”
Il suo rapporto con Liedholm invece?
“Eccezionale, una delle persone più divertenti che ho conosciuto. Qualche volta lo portavo a casa ed è una cosa che oltre a me e ad Alicicco è capitato a pochi altri. Nils abitava a via di Ripetta, mi facevo delle risate pazzesche nel tragitto. A quei tempi avevo il Porsche, quello basso. Lui era un omone e appena entrava si allacciava la cintura, cosa che all’epoca non faceva nessuno, e con la mano si teneva alla maniglia sopra al finestrino. Sembrava un fagottone, con quel cappotto enorme, la cintura allacciata che non lo faceva respirare e iniziava: “Roberto tieni destra perché su Lungotevere i romani vanno tutti a sinistra e facciamo prima” (Pruzzo inizia a imitare la voce del Barone, ndr). “Roberto è rosso”, “Roberto stai attento, fai passare i pedoni”. Roberto di qua, Roberto di là”
Era realmente così scaramantico?
“Mai visto uno peggio di lui. Una volta mi fece giocare con il numero 7 ad Avellino perché in base a non so che cosa il 7 doveva portarmi benefici”.
Come andò?
“Non ho strusciato una palla”.
Il Barone era fissato anche con l’astrologia.
“Se eri del segno della bilancia partivi con il piede giusto. E pensare che io e Ago eravamo dell’ariete”.
A Di Bartolomei pensa mai?
“Sì, era un ragazzo d’oro, un po’ chiuso ma forse ci prendevamo proprio per quello. Quando ha deciso di andarsene è stata dura per tutti. L’ho provato quel disagio, sono stato solamente più fortunato. E in campo era un leader”.
Come Falcao? Ma è vera la storia che litigaste dopo la finale con il Liverpool?
“Ma no, anche chi come Paulo in campo era Divino può avere delle debolezze umane. Discutevamo però. “E dammi sta cacchio di palla, gli dicevo”, e lui invece faceva come gli pareva. Il Liverpool rimarrà sempre una ferita”
Il suo grande cruccio in carriera è stata la Nazionale
“Ero troppo rompicogl… Con Bearzot ho discusso 3-4 volte, alla fine mi ha tolto due mondiali. E nell’82 portò Selvaggi perché Rossi alla terza partita, quella della tripletta al Brasile, con me dietro non ci sarebbe arrivato. Voleva farlo stare tranquillo. Pablito era il suo figlioccio, in Argentina lo aveva scoperto lui. Alla fine ha vinto e ha avuto ragione “.
Roberto grazie. Appuntamento agli 80.
“Volentieri, speriamo solo di arrivarci”.