Zerocinquantuno
·4 January 2025
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Orfeo della Bassa
VIII
In fondo allo sbocco del vecchio porto, il rombo della città era smorzato. Miriadi di farfalle popolavano l’aria tranquilla. Torme variopinti di volatili, pappagallini scappati dalle gabbie, verdoni e cardellini s’erano dati convegno non si capiva perché. Da tergo scendevano verdastre le acque dell’Aposa e del Savena mescolate. Orfeo scese dalla scarpata e saltò sul gommone che aveva predisposto Vincenzo Ritacca, signore di tutti i canali e di tutti gli echeggianti sotterranei di Bologna: nelle tempie gli batteva lento il tamburo di Mauro. Entrarono sotto le mura della città medievale: Orfeo si perse via via nei meandri delle biforcazioni. Transitò entro cunicoli di cemento armato, in gallerie di recente muratura. Sbagliò strada. Si trovò a risalire il grande Aposa. I mattoni si coloravano di rossastro sotto la torcia che sfumava via via con le luci artificiali alle pareti e i colori delle tubature sospese. Si vestivano di grigio tutte le murature cementifere giustapposte in venti decenni e di rosso vermiglio le giustapposte murature di venti secoli. Volte alte come cattedrali, contrafforti ciclopici. Sporti paurosi. Scese a piedi lungo le pensiline. Torce scarlatte fumigavano come guida verso l’apocalisse: era la compagnia degli attori delle fogne di Bucarest che presentavano il loro spettacolo lungo i camminamenti. Orfeo camminava a fatica. Era preoccupato per Euridice che lo seguiva da presso. Gli si accostò premurosa un’attrice rumena: «Non preoccuparti per Euridice – gli sussurrò presso l’orecchio – lei si orienta molto meglio di te. Peccato per te che ti segue e non ti precede. Torna indietro e cerca. Devi risalire per le Moline. Preoccupati solo di andare». Superarono il frastuono di tre cataratte, capì di essere sotto il laboratorio del grande gelatiere Benito quando vide nell’antro immenso la grande ruota a spinta di sotto che Fabio Marchi, direttore generale di tutti i canali, aveva fatto ricollocare per lui. Montò su una delle grandi pale ed Euridice dietro di lui. Guadagnò l’ultima scalinata e riemersero al passeggio della movida di Bologna. Fu lì, immediatamente vicino, che Orfeo vide due demoni di rango inferiore: erano i suoi amici il Gatto e la Volpe che gozzovigliavano seduti al gazebo del Victoria. «Grande Orfeo, siedi con noi!», blandì il demone Volpe. «L’affare è galattico!», disse il demone Gatto. «Non ho tempo», provò a rispondere Orfeo. «Un attimo solo», insistettero i due. E congetturarono più a lungo di quanto Orfeo non avesse voluto e previsto «Sta bene – disse alla fine Orfeo –, anche se so benissimo che mi fregate di nuovo». «Ma domattina presto», fece fretta la Volpe. «Come no, domattina presto», assicurò Orfeo per farla finita. In quello comparve una cameriera di Tracia, che accostatasi a Orfeo sollevò le ciglia arcuate sugli occhi uzbechi. «Questa è la Nemesi!», si avvide fulmineamente Orfeo girandosi d’onde era venuto. Ma Euridice non c’era più e Orfeo aveva mancato l’ultima occasione di sfuggire all’inferno.