Zerocinquantuno
·17 December 2024
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·17 December 2024
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Carissimi amici, carissimi lettori. Stavolta vi sottopongo a una dura prova, la sopportazione di alcune pagine (un po’ per volta naturalmente) di un raccontino strano che potremmo chiamare poemetto. Il contenuto può sembrare piuttosto personale, ma io l’ho scritto nella convinzione che possa toccare tutti quanti. Così come l’ambientazione, che è strettamente ‘nostrana’, può poi andar bene per tutti i luoghi. E se il significato potrà sembrare, sulle prime, vagamente oscuro, provo a fornirvi una chiave di lettura. Fate conto che il protagonista sia un centravanti ossessionato da tutti i gol che ha sbagliato in carriera e che alla fine, chiamato al riscatto nella partita della vita, sbaglia il rigore decisivo. Oppure che sia un portiere che rimugina sulle ‘papere’ della carriera e che, convocato nella partita più importante, incorre nella ‘cappella’ finale.
Orfeo della Bassa
I
La Morte s’era presa Euridice mentre Orfeo l’avventato era perduto dietro le sue chimere. «Come posso distrarre Orfeo?», pensò la Morte. Infatti finché non se lo fosse tolto di torno, non avrebbe potuto spargere i suoi malefici. «Creerò dei simulacri», pensò l’invisibile Morte. «Creerò il simulacro del danaro e lo farò correre». «Creerò figure fittizie, che sembrino più belle di Euridice, e gli tarperò il giudizio». «Creerò il vuoto del futuro e gli toglierò il riposo». E creati che furono i simulacri, non ebbe più pace Orfeo nell’inseguirli. Euridice era sola e non sapeva dove andare. La Morte poté tessere così le sue trame pian piano. Chiamò le Erinni sue alleate. Erinni Solitudine preparò la strada alle sue consorelle. Erinni Tristezza si posò come un nibbio nel cuore di Euridice. Non fu ascoltata Eumenide della danza e della risata. A niente poté l’Eumenide della protesta silenziosa che si provò a scompaginare l’ordine della casa. Niente poté l’Eumenide Misericordia chiedendo l’attenzione di Orfeo, cui la Morte ottenebrava la mente e pietrificava il cuore. Alla fine giunse Erinni Ambrosia, che recò la pozione. Euridice era morta nel pallore dell’alabastro e l’ultima bellezza le sfumava in volto, come il rimpianto del non consumato addio.
Orfeo restò percosso e istupidito, ma niente gli servì gridare e protestare. «Adesso te l’ho fatta!», lo sbeffeggiò in mezzo alle tempie l’invisibile Morte «Adesso patisci quello che non avevi previsto, perché questo è l’inferno cui non avevi creduto». «L’inferno è il rimorso, amico mio. Ce la siamo giocata e così sia» E così fu, come diceva la Morte: che non ebbe più limiti il dolore di Orfeo nel dare di matto. Cominciò a declamare poesie e comporre poemi. Si diede convinto che le parole muovessero rocce e fermassero i mari. Vaticinò che un verso perfetto avrebbe raggiunto gli inferi e resuscitato Euridice. Una notte, era vicina l’estate, Orfeo andò a vagare per gli argini e le cavedagne delle sue contrade natali. Visitò i casolari dei suoi antichi vicini. Raccontò a tutti con le poesie il suo dolore. Ma era così male in arnese che nessuno lo riconobbe e tutti lo cacciarono via infastiditi. Alla fine andò a trovare la vecchia Cirene, che viveva nella casa grigia di fuliggine dove la bonifica incontra il Centonara e assieme vanno via verso l’estensione delle valli. Lontano si udiva il brontolio di un temporale.
Bombo
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