PianetaSerieB
·26 September 2024
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Nel personalissimo legname che ognuno ha con la passione, in qualsiasi sua forma e declinazione, un tema praticamente quotidiano è la necessità di alimentare quello che è a tutti gli effetti un fuoco e che, in quanto tale, necessità di combustibile. Un processo perpetuo, incessante, ma così incantevole da generare quelle che Fedor Dostoevskij, in uno dei suoi rimarcabili capolavori, “Le Notti Bianche”, definisce – seppur al singolare – notti meravigliose, che possono capitare solo quando si è giovani. Per il sottoscritto, queste notti meravigliose passate a coltivare l’orto dei sogni sono (molto) spesso arrivate leggendo Carlo Pizzigoni, una penna che – senza accorgersene – ha indicato la strada per una generazione speranzosa di trovare nel calcio e nella scrittura il proprio equilibrio. Non un percorso qualunque, non un’autostrada a quattro corsie ma, riprendendo Jorge Valdano su Juan Roman Riquelme, una strada panoramica (in questo caso non tortuosa) per riempire gli occhi di paesaggi meravigliosi. In una fase storica dove il giornalismo sta assumendo grigie e asettiche versioni, ecco che dunque determinate figure vanno ascoltate con ancora maggiore attenzione. Intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni, Pizzigoni ci ha consegnato tante – profonde – impressioni su diversi argomenti che abbracciano la nostra Serie B (e non solo).
Vorrei partire da un tema che inevitabilmente unisce e divide, ovvero il percorso in panchina di Andrea Pirlo. Sommando le tre esperienze in panchina del Maestro – per il quale Sarri parlò di Effetto Guardiola – la sensazione di chi scrive è che il suo profilo professionale sia preceduto da ciò che ci si aspetta da lui: è come se, in un certo senso, a decidere il contenuto debbano essere i destinatari del messaggio e non il mittente.
“Ritengo che Pirlo possa essere considerato il miglior giocatore italiano degli ultimi vent’anni, e ovviamente da un simile status è nata un’attesa ulteriore, tra l’altro alimentata sin da subito dalla chiamata della Juventus. Credo che in tutto ciò nasca un equivoco, che presumibilmente ha generato finora una carriera in panchina senza alcun dubbio particolare. Parliamo di una persona con tante idee calcistiche, ma che deve ancora vivere a pieno il mestiere nella sua totalità. A me piace tanto chi si sporca le mani, facendo ciò che si ritiene giusto portare avanti, e se le cose vanno poi più o meno bene si prendono le critiche o gli elogi: ecco, da questo punto di vista massimo rispetto per Pirlo, perché a mio avviso mettersi in gioco è sempre segno di vitalità. Quella del Maestro, ad ogni modo, finora mi sembra una carriera non ancora troppo definita, dunque il giudizio per adesso è sospeso proprio per il discorso che facevi all’inizio: l’attesa era comunque elevata, un po’ per la carriera calcistica e un po’ per l’inizio alla Juventus, per quanto è comunque doveroso ricordare come la prima tappa avrebbe dovuto essere l’Under 23. Questo tipo di percorso è talmente sui generis che anche io sono in un certo senso frastornato: è sicuramente originale, ma forse ci si aspettava un po’ di più”.
Restando in tema di giovani allenatori, nella scorsa stagione la Serie B ha conosciuto Alberto Aquilani, tecnico che aveva fatto vedere più di qualcosa con la Primavera della Fiorentina. L’esperienza con il Pisa ha mostrato principi interessanti ma delle fragilità probabilmente naturali, ma al termine della stagione le parti si sono separate. Che idea hai del suo credo?
“Aquilani, secondo me, è un progetto di tecnico molto interessante. L’obiettivo del Pisa, nella scorsa stagione, era presumibilmente quello di arrivare ai playoff, che non sono stati centrati, ma se guardiamo al grande sprint avuto in quest’inizio di annata, a mio avviso alle spalle c’è il lavoro di Alberto, certificato ad esempio dai miglioramenti ravvisabili nei calciatori. Bisognerebbe valutare gli allenatori non solo in base ai risultati ma anche per la crescita che foraggiano, e nel Pisa che ora stiamo vedendo ci sono dei giocatori che hanno alzato il livello. Mi viene in mente Marin, ma potrei dirne altri. Non sposo, dunque, l’idea un po’ diffusa di etichettare come completamente negativa il suo mandato in panchina. Mi sembra che ci sia una corposa dose di pregiudizio nelle valutazioni portate avanti, complice quest’etichetta di “nuovo De Zerbi” o comunque seguace di una speciale categoria di idee, e in Italia sappiamo come si sviluppano questo genere di dinamiche: andrebbe osservato il percorso, non questa o quella dichiarazione. La squadra, aggiungo, probabilmente non era prontissima per giocare un certo tipo di calcio dal punto di vista delle qualità tecniche degli interpreti presenti in rosa, ma ad ogni modo è una parentesi che non valuto in maniera negativa, anzi sottolineo nuovamente i frutti colti nell’annata in corso”.
A proposito di Pisa, la scelta è ricaduta su Filippo Inzaghi, su cui è probabilmente possibile redigere un bilancio più corposo in virtù delle tante memorie in panchina già collezionate. La stagione è cominciata in maniera scintillante, ma l’argomento segue dure direzioni: la prima è una tua valutazione sull’Inzaghi tecnico, la seconda è la spiegazione – se di spiegazione si può parlare – che ti senti di dare sulla sua incisività in B e le difficoltà nella massima serie, per quanto ogni esperienza andrebbe comunque vivisezionata.
“Ti dirò, credo di essere stato uno dei primi a intervistare l’Inzaghi allenatore: era ai tempi degli Allievi del Milan, mi colpì subito l’entusiasmo nell’approccio al lavoro. Parliamo di un giocatore che ha fatto la storia del calcio italiano: se ne potevano apprezzare o meno le qualità tecniche, ma ha inciso ai massimi livelli. Anche in questo caso va elogiata l’idea di mettersi in discussione: tanti, con un determinato pedigree, avrebbero preteso qualcosa di più, invece lui è partito per l’appunto dagli Allievi, per poi portare avanti la propria carriera sposando anche situazioni non facili, come ad esempio quella della Reggina, dove si è molto integrato con l’ambiente. Ho la percezione che sia un allenatore con la capacità di saper costruire e mantenere un gruppo, così da farlo progredire insieme, in un percorso che da tutti è condiviso e sposato in pieno. Il definitivo passo, che magari arriverà a breve, sarà il consolidamento nella massima serie, forse con la necessità di un passaggio ulteriore nello sviluppo della proposta. Ad ogni modo, il ragionamento sulle sue tappe in Serie A va dipanato: a Bologna, ad esempio, è andata com’è andata, ma prima dell’arrivo di Thiago Motta e Giovanni Sartori gli altri non è che fossero stati brillanti. Resta dunque uno step da limare, ma non parlerei di lavoro fatto male. Restano i meriti sulla capacità di coinvolgere il gruppo: non è una conquista semplice, vuol dire essere credibili. La cosa che più mi piace di questo professionista è l’umiltà: è Pippo Inzaghi, ha fatto la storia, eppure trasuda entusiasmo che ha portato in ognuna delle sue avventure in panchina. Si percepisce la sua passione per il calcio: altri costruiscono a tavolino certe carriere, io preferisco chi segue l’istinto e la passione, sposando in pieno il sentimento della piazza. Su questo, a mio avviso, andrebbe elogiato”.
Carlo, il risultato non può né deve essere l’unico parametro per valutare la bontà dell’operato di un allenatore. Bisognerebbe amplificare altri meriti, come – ad esempio – la capacità di saper “generare” altri tecnici, spinti dall’intenzione di dare un’intelaiatura alle vibrazioni percepite al contatto con determinate figure. La quintessenza di questo discorso risiede, senza alcun dubbio, in Marcelo Bielsa, ma Roberto De Zerbi sta seguendo lo stesso solco. Ecco, Davide Possanzini, che tanto bene sta facendo con il Mantova, con RdZ ha condiviso tanti momenti.
“L’ammirazione per De Zerbi, anche da questo punto di vista, oggi è sicuramente mondiale. Sono stato a Brighton, e qualche ora prima di me c’era il Cacique Medina, ma sono passati in tanti, come il suo ex giocatore Sandro, oppure Filippo Inzaghi, di cui abbiamo appena parlato. È un allenatore che ha qualcosa di diverso, a me sembra di essere di fronte a una persona – prima che a un tecnico – speciale. Possanzini è stato uno degli assistenti di De Zerbi, credo che il modello sia evidente e la proposta calcistica abbastanza chiara: la fonte, insomma, è certa. Per tanti, in città, l’exploit di Possanzini e del DS Botturi ha creato quel legame che c’era ai tempi di Allodi e Fabbri, quando il Mantova era il Piccolo Brasile e arrivò in Serie A. Un simile ponte fa capire come ci sia qualcosa di speciale in questo tipo di calcio. La Serie B è un test ulteriore per Possanzini e la squadra, sembra che ci sia continuità con quanto fatto in C, ma ogni giorno è più difficile. È una realtà molto interessante da seguire, siamo in un percorso assolutamente virtuoso, sono molto curioso di seguirne l’evoluzione”.
La gestione Balata è sempre stata contraria alle seconde squadre in Serie B: è, secondo te, una posizione giusta?
“Nel momento in cui si è accolto questo progetto, che all’epoca era di Costacurta, non vedo perché bisogna fermarla alla Serie C, per quanto sia raro che una seconda squadra arrivi ancora più in alto. Non parliamo di una dinamica che ha come scopo principale il risultato, in quanto è una palestra, che tra l’altro abbiamo visto funzionare in casi come quello della Juventus. Sono sempre stato favorevole, anni fa mi dicevano che ciò non facesse parte della nostra cultura, e rispondevo con l’esempio del Portogallo, dove con la stessa base di partenza culturale erano comunque riusciti a implementare nel cammino ciò di cui stiamo parlando. Avendo seguito quotidianamente per quasi dieci anni le giovanili di Inter e Milan, secondo me è un passaggio necessario che riguarda, però, in particolar modo le squadre grandi, perché in queste realtà chi esce dal vivaio fa molta più fatica a gestire il salto. Se, dunque, vogliamo il bene del movimento, bisognerebbe avallare le seconde squadre indipendentemente dalla categoria, mentre se il focus diventa la protezione di interessi di bottega, ovvero il voto di due-tre presidenti, non ci siamo. L’idea della salvaguardia delle piazze è un po’ populistica, sappiamo benissimo che ci sono tante compagini che traballano non per le squadre B, bensì per colpa di investimenti sbagliati e di un calcio che non riesce a produrre qualcosa di sostenibile. Non penso che tutti i club di A debbano portare avanti questo discorso, anzi da quel punto di vista mi sembrerebbe assurdo, ma è un sistema che le big potrebbero adottare, e non perché debba essere solo questa la fatta da premiare, bensì perché si produrrebbero vantaggi per l’intero movimento e per la Nazionale”.
Carlo, l’ultimo tema non è racchiuso in una domanda ma in una considerazione. Il riferimento è ad Antonio Cassano, essere umano che hai spesso modo di saggiare. A detta del sottoscritto, parliamo di una delle persone più intelligenti presenti nel calcio italiano, ma non di una fredda intelligenza accademica e ratificata da titoli vari ed eventuali, bensì nella capacità di saper cogliere in profondità le cose della vita, non inciampare in maniera voluminosa e pericolosa nonostante le mancanze sofferte e l’oro piovuto dal cielo senza alcun corso di formazione. Antonio, per gli ingredienti dei suoi primi giorni su questo mondo è il percorso rigoglioso e opulento, spesso portatore di vizi, poi avuto nel calcio, ha tanti strumenti e argomenti che gli stolti ignorano. Chi e cos’è, per te, Antonio Cassano?
“È un discorso interessante, lungo, complesso ma soprattutto emozionante. La premessa è stata fenomenale, concordo con quanto hai detto. C’è chi non ha capito o fa finta di non capire. Cosa sia stata la vita di Antonio è un tema dove faccio fatica a entrare, perché è un argomento molto personale. Bisogna entrare nelle pieghe del suo modo di comunicare e, quando viene fatto, subito diventa chiaro cosa intenda dire, e difficilmente si può essere in contrasto con lui. Sui concetti che esprime, se uno vuole realmente comprendere, ci sono letture sopraffine e, da questo punto di vista, secondo me è unico. Antonio è totalmente incompreso da parte di chi è in malafede o da chi ha un cattivo pregiudizio sociale, che fa male. Detto ciò, Cassano è Cassano ed è arrivato a toccare determinate vette anche per le sue spalle larghe, oltre che per un talento senza eguali. È stato chiamato dal Real Madrid dei Galacticos, come dice lui, ed è una medaglia che nessuno può togliere per quanto qualcuno, senza riuscirci, cerchi di svilire la cosa. È una situazione che a me prende molto anche dal punto di vista emotivo, perché trovo che subisca delle ingiustizie perpetue da quel gol clamoroso contro l’Inter. Antonio non è mai stato banale in campo e non lo è fuori, è un uomo che mette al centro i valori e sul quale dicono tutto e il contrario di tutto, ma perché non è mai emerso uno scandalo o qualcosa di questo tipo? Vuol dire che la narrazione che è stata costruita su di lui manca di alcuni pezzi”.